26 giugno 2020

Sicilia Segreta



È la CITTA’ delle CENTO CHIESE. 
Situata nella zona meridionale dei Monti Iblei, 
MODICA è una città singolare e sorprendente. 
Il suo territorio urbano si sviluppa su un esteso altopiano solcato da profondi canyon (detti cave) e sorge sulla confluenza di due fiumi ormai asciutti, Pozzo dei Pruni e Janni Mauro, che lo dividono in quattro colline: Pizzo a nord, Idria ad ovest, Giganta ad est e Monserrato a sud. 
MODICA è una città suggestiva e affascinante, con il suo groviglio di casette, viuzze e lunghe scalie, sulle quali svettano i magnifici campanili delle tante chiese che, solitamente non si affacciano su piazze, ma su imponenti e scenografiche scalinate, modellate sui declivi delle colline. 
Il centro storico della "Città delle cento chiese", così chiamata per la grande quantità di edifici religiosi che ospita, ha un impianto medievale, cresciuto intorno allo sperone della collina del Pizzo, sul quale è abbarbicato, inaccessibile, il Castello dei Conti di Modica. 
La zona vecchia della città, è costituita da casine addossate le une sulle altre, che spesso non sono altro che l'estensione di antiche grotte abitate sin dalla preistoria (nel centro abitato ci sono circa 700 grotte). Ciò che rende però, la città così unica e affascinante, tanto da farle meritare il riconoscimento dell'UNESCO di 'Patrimonio Mondiale dell'Umanità', non è soltanto l’opulenza di chiese e palazzi tipica del barocco, ma anche l’omogeneità di queste costruzioni, in gran parte edificate dopo il tragico terremoto del 1693 che sconvolse l'intera Val di Noto, seminando morte e distruzione. 
Poco è rimasto delle epoche precedenti come il portale gotico della Chiesa del Carmine; le rovine della Chiesa di Santa Maria di Gesù, risalente al XVI secolo; la Cappella del Sacramento, del XV secolo; la Chiesa rupestre di San Nicolò Inferiore, del XII secolo. 
Di notevole rilevanza è anche la necropoli di nelQuartiriccio,  quartiere Vignazza, con tombe a forno scavate nella roccia e risalenti al 2200 a.C.


25 giugno 2020

Come le nostre nonne stiravano




Nelle case del Coindo nei primi anni del secolo scorso, lenzuola, asciugamani e vestiario intimo non venivano mai stirati, avevano altro da fare; si stiravano solo i vestiti della festa.
Il primo ferro da stiro che ho visto (anni ’30) era quello pesante che si metteva
direttamente sulla stufa.
La piastra si riscaldava e la nonna poteva stirare il tempo che durava questo calore, ovvero pochissimo. Insomma per dare una piega ai capi ci voleva davvero tanto tempo.
Ve le ricordate le stufe di una volta fatte a cerchioni concentrici i quali si toglievano uno ad uno, a seconda della grandezza della pentola da mettere?
Ebbene, quella era la stufa su cui si poggiava il ferro da stiro.
Successivamente ho visto utilizzare quello dove si mettevano le braci direttamente dentro al ferro. Quello per intenderci che, come cimelio, si trova ancora in tante case.
Era tutto nero e aveva l’apertura in alto che permetteva di riempirlo di braci ardenti.
Questo ferro aveva un’autonomia più grande rispetto a quello di prima.
Per poter stirare agevolmente si spruzzava la stoffa con dell’acqua.
La bruciatura era assicurata se non si aveva l’accortezza di mettere uno straccio tra la stoffa e il ferro. Le stoffe sintetiche non erano ancora arrivate nelle nostre case per cui i capi da stirare erano prevalentemente in canapa, lino o lana.

24 giugno 2020

" IL Ceraiolo " Le Professioni di un tempo




Il ceraiolo si occupava della produzione artigianale di torce, lumini e candele, utilizzando la cera. Tale materia prima, elaborata dalle api per la realizzazione dei favi, era sottoposta a varie fasi di lavorazione. 
Il ceraio fondeva favi in acqua calda per eliminare corpi estranei e residui di miele. 
Sulla superficie dell'acqua, una volta raffreddatasi, si formava una focaccia di cera greggia che, disposta sopra il fuoco, veniva fatta bollire fino a quando non si fosse completamente liquefatta. 
Era cura del ceraio mescolare con una spatola di legno la cera, al fine di non farla aderire ai bordi e quindi bruciarla. 
Una volta che essa appariva ben fusa, si colava nei tini di legno, dove riposava per alcune ore, prima di essere passata in un bacile forato e riversata nelle bagnatoie, da dove le fettucce di cera ottenute venivano prelevate mediante una forca a tre denti per essere sbiancate. 
Dopo che le cordelle avevano raggiunto il giusto grado di bianchezza, il ceraiolo le riponeva nuovamente nelle caldaie dove venivano liquefatte. 
A quel punto il prodotto era pronto per essere sistemato in un contenitore con 2 manici e 2 becchi. Tale attrezzo permetteva al ceraio di versare più facilmente la cera nelle tavole da pani. 
Essi, dopo essersi coagulati ed induriti, erano utilizzati dal ceraio per creare candele, ceri e candelotti. Per quello che riguarda la manifattura delle candele, il ceraiolo, dopo aver provveduto a fissare i lucignoli di cotone su un cerchio di ferro, li immergeva più volte finché non avessero raggiunto una determinata dimensione. Riposti successivamente tra due pali, venivano presi e sistemati sopra una tavola ben levigata e pulita, al fine di essere arrotolati. 
Terminata questa fase, mediante un coltello di legno si creava la testa a ciascuna candela. 
I lucignoli, lasciati così scoperti, venivano infilati di nuovo negli uncini del cerchio metallico, affinché le candele fossero fatte precipitare nuovamente nella cera fusa. 
La sua qualità era determinata dal colore, il quale doveva essere d'un bianco candido e trasparente. 
In passato un espediente per accertare la mancanza di grassi nella candela era quello di far calare una goccia di cera liquefatta sopra un panno ed aspettare che si asciugasse, affinché si potesse distaccarla dal tessuto, il quale non doveva presentare alcuna traccia di unto. 
Oggi, il mestiere del ceraiolo è pressoché scomparso, essendo stato soppiantato dalle moderne tecnologie.

23 giugno 2020

Antichi mestieri: lo scopettaio





Un tempo, in tutte le botteghe di barbieria che si rispettavano, c’era un ragazzo che alla fine spazzolava le giacche dei clienti con una scopetta, al fine di rimuovere e levare eventuali capelli. 
Il lavoro veniva fatto con cura, nutrendo la speranza di una discreta mancia. 
Le spazzole destinate alla pulizia dei vestiti erano fabbricate con del pelo animale morbido
(cinghiale o maiale). 
Questa specie di scopette, oggi sono state soppiantate dai “roller” di carta gommata e da quelle realizzate in microfibra. 
Inoltre, un tempo, quando le donne facevano il bucato, strofinavano i panni con sapone e dove lo sporco era più resistente, usavano una scopetta di saggina per strofinare più energicamente. 
Anche in questo caso la classica spazzola non è più usata, e se proprio necessita, si usano quelle in plastica, molto più resistenti ed ugualmente efficaci. 
Esistevano ed esistono spazzole dalle setole di metallo, anche oggi adoperate, ad esempio, nei lavori edili, ma dove ancora la spazzola furoreggia, non avendo trovato una valida sostituzione è nella lucidatura delle scarpe. 
Anticamente le scopette venivano usate anche per pettinarsi. 
Si adoperavano soprattutto sui bambini, in modo da non poterli nuocere. 
Nonostante i progressi della tecnologia, l’antica scopetta, in alcuni casi, ancora resiste tra gli arnesi utili della casa. Quello che per noi è un oggetto tanto semplice e necessario, un tempo veniva realizzato con particolare maestria dallo scopettaio, figura che faceva e vendeva le scopette.

22 giugno 2020

Il complesso della torre di San Filippo



Il complesso della torre di San Filippo (foto Rossella Papa)    


Un'apparizione che torna il 7 di ogni mese: fa paura la leggenda della Torre negli Iblei

Se Ragusa Ibla è un incanto, con le sue stazioni di meraviglia che si affacciano tra vicoli e cortili, stretti e intricati come una tela sulla roccia, al passo che guida sino ai fianchi incurvati del Duomo di San Giorgio, e da lì come per miracolo si apre a una delle più sontuose epifanie di bellezza di tutta l’Isola, non da meno è il paesaggio che dalla città muove all’entroterra. 
È una Sicilia che abbandona l’idea stessa del mare, e non perché la rifiuta, scontrosamente, ma per l’identità fortissima che la campagna definisce a questi luoghi di suggestivi tramonti e di prosperose vallate. 
Fra muri a secco, manti di carrubo e ulivi secolari, ecco un pezzo delle Cento Sicilie di Gesualdo Bufalino, e ancora una volta è alla luce del sole che cade l’ombra, e con essa il mistero sbavato delle sue cronache di leggenda. 
Siamo in contrada Santa Rosalia, a metà strada fra Giarratana e Ibla, in un luogo impervio e assediato dalla ricca natura che lo avvolge, nelle quiete che irrompe magnifica per gli ozi della solitudine, in un maniero criptico e sibillino. 
È la Torre San Filippo, uno splendido edificio in pietra che ha uno stile insolito, e, per certi aspetti inspiegabile, di certo assai differente dalle residenze nobiliari dell’intorno: ha una pianta labirintica, una perimetrazione eccentrica, uno splendido portone gotico, e una leggenda che fa paura. 
Per l’eleganza del progetto e per l’apparato decorativo, questa residenza di campagna somiglia più a un castello – con una torre d'avvistamento e una chiesa privata al suo interno – che a un caseggiato rurale, pure se ben concepito. 
Al fascino del luogo, indiscusso, non da meno ha giovato una leggenda riportata – anche sulla stampa – dal professore Gaetano Giovanni Cosentini, che narra di una donna inseguita dai cani. 
 Sembra una novella di Giovanni Boccaccio, o, meglio, proprio l’ottava della quinta giornata del Decamerone, quella che ha per titolo Nastagio degli Onesti, dove si racconta di un giovane che, inoltratosi a passeggiare nella pineta di Classe, assiste a una scena orrenda: una giovane donna inseguita da due mastini e dal fantasma di un cavaliere armato di pugnale, che, raggiuntala, la uccide e ne dà da mangiare il cuore e le interiora ai cani. Boccaccio è solo una suggestione narrativa, un’intersezione fra i bagagli della memoria, e la Sicilia è terra di fantasie popolari imperscrutabili; e però, in questo caso, la leggenda – a quanto pare – ha trovato conferma nelle strane apparizioni segnalate dai contadini della zona. 
Per comprendere il confine fra la verità e l’invenzione, bisogna che si inizi dai tempi antichi in cui nella Torre di San Filippo viveva un ricco proprietario con l’unico figlio maschio, colui che avrebbe ereditato le immense ricchezze del feudo. Pare che il giovane si fosse invaghito di una bellissima ragazza dai lunghi capelli biondi, ricambiato nei suoi sentimenti al punto tale da sposarla e condurla con sé nello splendido maniero, viziati all’amore di un tempo felice. 
Ma giunto sul posto un affascinante guardiacaccia, la giovane sposa si prese d’inquietudine, e così la tentazione rese gli estranei complici, e i complici amanti. 
Approfittando delle assenze per lavoro del marito i due si consumarono nella passione, fino a che uno stalliere non denunciò quel che accadeva quasi sotto i propri occhi al marito ignaro, che, il sette di novembre, fingendo di allontanarsi per i campi, si nascose. 
Attese, con disumana pazienza, l’incontro degli amanti furtivi, e accecato dall’ira per l’orgoglio ferito uccise a morte con un pugnale il giovane guardiacaccia. 
Consumato il brutale assassinio, la donna fuggì via terrorizzata mentre il marito scioglieva la muta dei cani, lanciati a inseguirla come bestie cieche. 
Lei salì sulla Torre, faticando sui gradoni freddi come un’invasata, e raggiunta dai cani inferociti al limite delle pareti merlate, si gettò precipitando nel vuoto. 
Da allora, il sette di ogni mese, secondo quanto pare dicano i contadini della zona, appare l’immagine di una donna dai lunghi capelli biondi che si affretta inseguita da sette cani neri come la pece. Se ne distinguono le sagome, nel tumulto di una folle corsa, che ringhiano fameliche, sull’orlo della torre mentre la donna si butta giù e svanisce a mezz’aria come uno spirito. 
Poco dopo si smorzano i latrati e tutto torna al silenzio, che in certi luoghi è più spaventoso delle urla, perché è soltanto una pausa, un non-tempo che conta inesorabile i successivi trenta giorni affinché tutto riaccada. 
Gli improvvidi che si sono azzardati alla Torre, la cui scala d’accesso è in parte distrutta e a forte rischio di crolli, avranno goduto di un paesaggio strabiliante che domina tutta la vallata, talmente bello da far dimenticare il trepestio dei passi affannati della bella giovane, ridotti a una povera eco lontana, come in tutte le campagne di Sicilia in cui i cani abbaiano alla luna prima del sonno. Un'apparizione che torna il 7 di ogni mese: fa paura la leggenda della Torre negli Iblei

21 giugno 2020

Lavori di un tempo: il votapozzo



Il votapozzo era una figura il cui lavoro consisteva nel vuotare e pulire i pozzi, gli 
smaltitoi e le fogne. 
Quando nelle abitazioni non c’era ancora l’acqua corrente, infatti, chi poteva avere un pozzo in casa o nelle vicinanze, era fortunato. 
Nelle città e nei borghi medievali la cisterna era collocata al centro e garantiva l’unica riserva d’acqua che era disponibile a scopo alimentare ed igienico. 
In campagna i pozzi erano disseminati quà e là. 
Periodicamente bisognava provvedere alla loro pulizia per evitare malattie causate dall’assunzione di acqua sporca. 
E allora entravano in scena i “votapozzi”. Si trattava di un lavoro da fare in coppia. 
Uno di essi, dopo essersi passato intorno alla coscia l’anello di una robusta corda, che l’altro teneva all’estremità, saliva sull’orlo del pozzo, abbracciava la corda del pozzo con entrambe le mani e si lasciava andare giù. 
Nel frattempo il suo compagno lasciava scorrere la fune, facendo un po' di resistenza per sollevarne il corpo e potere impedire la caduta, nel caso la corda si fosse spezzata. 
Quando il ripulitore era disceso il più possibile vicino alla superficie dell’acqua del pozzo, il socio fissava l’estremità della fune a qualcosa di saldo. 
Il ripulitore, dal canto suo, conficcava tra le pietre 2 chiodi per ciascun lato del pozzo, servendosi di un grosso martello che aveva portato con sé. 
Quindi, con l’aiuto della corda risaliva quel tanto che bastava per appoggiare i piedi sui chiodi. Mantenendo questa posizione, procedeva alla pulitura del pozzo, servendosi di una cucchiaia di ferro traforata e dotata di un lungo e forte manico di legno, che il compagno gli aveva fatto arrivare attaccata ad uno spago. 
Affondando questo strumento nell’acqua, raschiava il fondo del pozzo per eliminare ogni tipo di immondizia che vi trovava e che riponeva nel secchio del pozzo, 
che il compagno provvedeva a tirare fuori. 
L’operazione si ripeteva tante volte quante fossero necessarie, e terminato il lavoro il votapozzo ritornava in superficie, servendosi dei supporti che aveva usato per la discesa. 
Oltre alla pulitura dei pozzi, era competenza dei votapozzi, svuotare le fogne. 
Questa esigenza era particolarmente sentita nelle grandi città, 
dove il rischio di epidemie era sempre presente. 
Procedevano dopo che la fogna era restata aperta per 24 ore e dopo che il mastro 
votapozzo l’aveva esaminata. 
Verso sera, un carro pieno di botti asciutte e dotate di un foro quadrato in uno dei fondi, 
giungeva nel luogo. 
Il lavoro si svolgeva durante la notte. Gli addetti si calavano dentro la fogna e muniti di gerle tiravano fuori la materia putrida che veniva versata nelle botti che erano state allineate nella strada e una volta piene venivano portate via e scaricate fuori dalle città.
Tali lavoratori dovevano svolgere queste operazioni più velocemente possibile, perché la prolungata esposizione alle esalazioni, secondo la medicina del tempo, a lungo andare provocava la cecità. 
Oggi, anche per via del cessato utilizzo dei pozzi, tale figura ovviamente non opera più.

20 giugno 2020

Lo “Scoglio degli eterni amanti”



La leggenda catanese dello “Scoglio degli eterni amanti” è un simbolo di amore e romanticismo,
che merita di essere ricordata.
Tra i simboli d’amore che fanno parte della storia leggendaria di Catania ne esiste uno alquanto insolito, che cela un aneddoto che in pochi conoscono.
Stiamo parlando del cosiddetto “Scoglio degli eterni amanti”.
“Lo Scoglio degli eterni amanti” è uno scoglio del lungomare catanese situato nei pressi di Piazza Nettuno, così chiamato perché con la sua morfologia richiama un bacio tra due innamorati.
Ma non parliamo di due amanti qualsiasi, perché la denominazione dello scoglio richiama ad una specifica leggenda popolare che narra l’affascinante storia dell’ amore tra due giovani catanesi.
 A raccontarci la leggenda nata attorno allo scoglio è Milena Palermo, studiosa e divulgatrice della storia e cultura catanese attraverso “Obiettivo Catania” la pagina Facebook da lei fondata.
Ci ha confessato di essere molto legata a questi caratteristici scogli di pietra lavica, di cui è venuta a conoscenza della leggenda nei primi anni 80, quando era molto giovane, passeggiando mano nella mano con il suo primo ragazzo.
“La leggenda, o meglio io la definirei una fiaba – esordisce Milena – gira attorno alla storia di due giovani amanti, vissuti secoli fa, e il cui amore venne ostacolato dal padre della fanciulla.
Lei era ricca e bellissima come una rosa, lui invece era povero.
” La ragione per cui l’amore dei due giovani era ostacolato dalla famiglia della fanciulla risiedeva proprio nelle modeste origini del ragazzo.
Infatti, come un tòpos ormai consolidato nelle fiabe e nelle favole di antica tradizione, il matrimonio di una nobile fanciulla innamorata di un giovane miserabile è sempre vietato ed impedito con tutti i mezzi dalla famiglia di lei.
Oltretutto, la giovane fanciulla in questione (alla quale alcuni attribuiscono il nome di Rosa) non poteva sposare il suo amante dalle origini modeste (a cui si attribuisce il nome di Tano) perché era promessa in sposa già a qualcun altro.
“Il padre – infatti spiega Milena – l’aveva promessa ad un ricco notabile catanese.
Tentò così in tutti i modi di impedire che i due innamorati si frequentassero, arrivando persino, vista l’insistenza e la caparbietà del giovane a non rinunciare alla fanciulla, di promettergli la mano della figlia se nell’arco di cinque anni sarebbe riuscito ad arricchirsi.
” Pertanto, il giovane amante non si diede per vinto e partì per cercare fortuna.
Allo scadere dei cinque anni concessi dal padre della fanciulla, il giovane tornò a Catania, arricchito e fiducioso di poter finalmente ottenere la mano della sua amata.
Un’amara realtà dovette però constatare una volta rientrato in città: la fanciulla nel frattempo si era sposata per volere del padre, che chiaramente aveva ingannato il giovane innamorato, non rispettando la promessa fatta cinque anni prima.
 “Allora – continua Milena – il giovane disperato si presentò al cospetto della sua amata, ricevendone udienza, le chiese un solo e ultimo bacio, ma lei sposa ormai fedele ed onesta, glielo negò.
Così il giovane morì di dolore.
” Potrebbe sembrare questo un triste epilogo della storia, ma un colpo di scena finale, rende la leggenda anche se drammatica, di un immenso romanticismo.
“Al funerale del giovane, il giorno dopo, in chiesa si presentò una donna vestita a lutto e con un velo nero che le copriva il viso.
La donna si avvicinò al giovane defunto nella bara, alzò il velo e lo bacio a lungo sulle labbra.
Poi spirò fra le sue braccia.
Qualche giorno dopo una colata lavica dell’Etna quasi per miracolo, scolpì tra gli scogli l’ultimo bacio dei due amanti a monito di eterno amore”, conclude Milena.
L’ultimo bacio dei due innamorati suggella la fine di una storia ancora una volta, quasi come Romeo e Giulietta, intrecciata tra amore e morte.
I due giovani, infatti, riescono a riunirsi e a stare insieme soltanto nel momento estremo della morte, alla quale, tuttavia, il loro giovane amore sarà destinato a resistere per sempre.

19 giugno 2020

I lavori di una volta: il lampionaio



Il lampionaio aveva il compito di accendere e spegnere, ad orari prestabiliti, i lampioni ad olio o a gas delle vie e delle pubbliche piazze. 
Fino alla fine del 1600 le città erano prive di illuminazione, quindi pericolose. 
Subito dopo il tramonto, al suono dell’Ave Maria, si chiudevano le porte delle mura cittadine e con l’oscurità iniziava il coprifuoco. 
La ronda notturna girava armata, illuminando con le fiaccole le strade principali, ma gran parte della città rimaneva al buio. 
Con l’arrivo della lampada ad olio, poi, l’illuminazione pubblica ebbe un notevole impulso e l’accensione, lo spegnimento e la manutenzione delle lampade erano affidati ai lampionai. 
Queste figure, appena calava il sole, scala in spalla o muniti di un’asta con del materiale infiammabile sulla punta, passavano ad accendere tutti i lampioni. 
All’alba rifacevano il giro per spegnerli con un’altra asta munita all’estremità di un oggetto di lamiera simile ad un imbuto rovesciato. 
La figura del lampionaio, con la graduale diffusione dell’energia elettrica, è andata progressivamente in declino e con la fine della II Guerra Mondiale è andata definitivamente in pensione.

18 giugno 2020

Villa Boccaccini



La casina rossa di Scicli


Se fosse un film dell’orrore, sarebbe
"La casa dalle finestre che ridono", il capolavoro di Pupi Avati del 1976. 
Lì era la Bassa Padana, un paesaggio di umori sonnolenti e di 
sottotesti inquietanti. 
Sarebbe la villa scelta per ambientare le sequenze più spaventose, un set che esiste davvero e si trova a Comacchio, in provincia di Ferrara, a richiamo di memoria per quella stagione libera e scorrettissima del cinema italiano degli anni ’70. 
Sarebbe Villa Boccaccini, abbandonata e distrutta, fagocitata dalla stessa natura che la protegge e insieme la isola. 
Sarebbe, ma non è. Perché qui siamo in Sicilia, nella zona del ragusano, una delle campagne più belle di tutta l’Isola. 
Chi lascia il mare, da quelle parti, si addentra a una terra fertile e scura, a tracciati sinuosi scortati a perdita d’occhio da lunghissimi muriccioli a secco, ad antiche residenze estive di grande pregio che declinano a
una morte lenta. 
Siamo tra Modica e Scicli, in una villa che non c’entra nulla con la piccola nobiltà di provincia, e non ha nemmeno un nome, quasi volesse rimanere indistinta in quel paesaggio di rara bellezza. La casina rossa, così gli abitanti del luogo chiamano questa strana villa abbandonata. 
Fabrizio Ruggieri, con il suo collettivo di esploratori, l’ha visitata, e, soprattutto, ne ha approfondite le vicende. 
È una storia che comincia come qualsiasi altra storia. 
Siamo alla miniera di pece di Castelluccio-Streppenosa, simbolo storico della Sicilia Orientale, in un’area mineraria sfruttata per secoli, in modo industriale, da numerose società straniere. 
Un luogo ammantato di strane leggende e di echi visionari, che ha finito per diventare lo scenario di una tragedia della storia, un paesaggio di tortura e di morte: un groviglio di barbarie inimmaginabile. La villa è stata costruita, a cavallo dei due secoli passati, dalla famiglia tedesca Kopp, concessionaria per l’utilizzo di questo bacino minerario cui facevano capo enormi interessi economici. 
Lo strano nome, involontariamente cinematografico, le proviene dal colore dei muri esterni e della facciata, oggi quasi non più visibile. Per l’epoca era una costruzione all’avanguardia, progettata a chiari fini industriali, con una teleferica che attraversava l’intera vallata accorciando i tempi di trasporto del bitume e massimizzando gli utili. 
 L’edificio d’intorno, nei bassi, ospitava gli operai, i cosiddetti picialori, comprimari di massa stremati da un lavoro avvilente e difficoltoso. 
È durante la prima guerra mondiale che il governo italiano trasferisce al demanio regionale la gestione dell’area, e, non più sfruttata la miniera, anche la casina rossa viene abbandonata restando chiusa
per lunghi anni. 
Sono i tedeschi a riappropriarsi della zona, alle soglie della seconda guerra mondiale, con l’elmetto nazista e la divisa delle SS. 
Militarizzano il sito e sfruttano nuovamente la miniera, con tecniche più intensive, e soprattutto aprono un piccolo campo di concentramento. 
 Una cosa mostruosa, lì, in quella zona, in quella campagna lussureggiante, in un angolo di Sicilia dove la storia precipita in tragedia. 
In realtà, da alcune indagini più approfondite presso gli enti pubblici di tutela del patrimonio storico e del paesaggio, pare sconosciuta la destinazione della casina rossa a campo di concentramento, quanto invece è certo che dal 1942 sino allo sbarco delle forze di liberazione la villa fu residenza del comando tedesco. 
 E però – secondo le ricerche condotte dagli esploratori – alcuni anziani dei comuni limitrofi raccontano un’altra storia, un dolore inciso a carne viva nella loro memoria. 
Dicono che la villa avesse una funzione strategica di controllo dell’intera vallata, e che presto assunse un aspetto macabro e inatteso nel momento in cui i tedeschi la riconvertirono a luogo di reclusione per dissidenti politici e partigiani. 
 Ma c’è di più, perché durante i rastrellamenti venivano fermati e tradotti nella casina rossa anche gli omosessuali della zona, in alcuni casi portati dagli stessi genitori per una conversione forzata alla virilità perduta. Dicono che i prigionieri venissero torturarti fino alla morte, evirati e resi eunuchi. 
La storia che diventa mito, e il mito che nasconde tracce di realtà occulta. 
Chiacchiere, leggende di paese, racconti proferiti a bassa voce, tenendosi lontani da quel luogo. 
 Pare che un’anziana abbia riferito che nella villa siano stati condotti ventitré omosessuali, tutti provenienti dal comune di Scicli, e che di loro nessuno abbia fatto ritorno. 
In segno di guarigione avrebbero dovuto intrattenere rapporti sessuali con donne in presenza dei loro carcerieri, in un film che adesso sembra "La caduta degli dei" di Luchino Visconti. 
 Come che sia, dopo la guerra la villa fu ancora una volta chiusa, e con essa gli orrori che si erano consumati al suo interno, e per uno strano segno del destino riconvertita a scuola, prima del suo definitivo abbandono. 
Avrebbe dovuto diventare sede del Museo della Pietra degli Iblei, ma al momento è un edificio desolato e impaurente, con il tetto pressoché crollato e un generale ammaloramento delle pareti. 
 È lì, la casina rossa, in mezzo a quella campagna, a due passi dalla miniera abbandonata, e con il tempo anche i suoi segreti, sussurrati e incerti, finiranno per morire con lei, rimanendo un giorno come un cumulo di conci di pietra al sole.


17 giugno 2020

Mestieri di una volta: la tessitrice





Fino agli anni ‘50 del ‘900 la tessitura a telaio della canapa era praticata in diverse famiglie.
E c’era anche chi lo faceva per lavoro.
La tessitrice era seduta dietro ad un telaio di legno, funzionante con l'uso dei piedi e delle mani e trasformava i fili di fibra in tessuto.
Nella parte bassa del telaio si trovano due lunghi pedali collegati da corde e da regoli mobili uniti a tanti fili provenienti da un asse.
Ogni pezzo di legno era collegato al resto dell'ingranaggio ed era indispensabile al buon funzionamento dell’insieme.
Nel telaio vi erano due rulli.
Uno collocato davanti, per avvolgere ciò che si tesseva e l’altro nella parte posteriore a reggere i fili dell'ordito da lavorare.
Il lavoro della tessitrice dava consistenza di tessuto alla canapa, con la quale veniva realizzata la maggior parte degli indumenti.
E si preparava il tessuto lungo vari metri e avvolto su se stesso, da cui venivano tagliati i pezzi del corredo della sposa, quindi lenzuola, tovaglie da tavola, strofinacci, asciugamani.
Un percorso, quello della tessitrice, che conduceva anche alla creazione di tappeti e arazzi di varia grandezza.
Oggi il mestiere è quasi scomparso, anche se ci sono delle realtà italiane che ancora vedono protagoniste donne che tessono al telaio

16 giugno 2020

Mestieri antichi…con risvolti nel presente: il pannazzaro




I pannazzari erano gli ambulanti che giravano i mercati, vendendo tessuti con cui si cucivano i vestiti.

Negli anni ’60 con tale nome si indicavano anche coloro che andavano in giro per le strade, portando con sé la merce (biancheria, lenzuola, coperte, asciugamani e stoffe più o meno pregiate).
La merce acquistata si poteva pagare subito oppure a rate (settimanali o mensili).
In tal modo si potevano spalmare nel tempo spese altrimenti non sostenibili, quali ad esempio quelle per il corredo nuziale delle ragazze.
Dagli anni ’80, poi, molti pannazzari hanno aperto dei negozi o ceduto il mestiere alle donne.
Le pannazzare, al riguardo, fino a pochi anni fa sono state parte integrante della vita familiare.
A differenza degli uomini, infatti, le donne potevano entrare nelle case (nonostante l’assenza dei maschi) e fermarsi a chiacchierare mentre si guardavano i capi del corredo.
Oggi sono diverse le opzioni per acquistare capi, panni e tessuti: negozi, mercati settimanali, web.
Il mestiere del pannazzaro è quasi del tutto scomparso, anche se c’è ancora chi - in particolare stranieri - presentano la propria merce a domicilio, girando casa per casa

15 giugno 2020

L'isola delle Correnti


foto wiki

L'isola delle Correnti ha una particolarità che la rende unica: la si può raggiungere a piedi con il mare che, al massimo, arriva alla vita. 
È davvero un'emozione da provare «Terra di Sud, terra di confine, terra di dove finisce la terra» sono le parole di Vinicio Capossela in preda ai tremori del suo coinvolgente ballo di San Vito che sembrano descrivere alla perfezione uno dei luoghi più suggestivi della Sicilia: 
l'Isola delle Correnti, un fazzoletto di appena diecimila metri quadri di superficie i cui confini separano da un lato lo Jonio e dall'altro il Mar Mediterraneo. 
Un po' come trovarsi sul meridiano di Greenwich con un piede da un lato e uno dall'altro. 
 Ci troviamo nel comune di Portopalo di Capopassero, un paesino minuscolo immerso tra le campagne di coltivazione del pomodoro ciliegino IGP, in provincia di Siracusa, che attira migliaia di visitatori ogni anno sia per il suo lungo e meraviglioso litorale sabbioso che per quest'isola collegata alla terraferma - che in questo caso sono due meravigliose spiagge di dune dalla sabbia finissima - da un braccio artificiale. 
 Sull'isola non c'è molto, ed è proprio l'essenzialità di questo luogo a renderlo imperdibile. 
La flora è minima. 
Qualche cappero, arbusti mediterranei, piante di porri selvatici e fichi d'India. 
Il passaggio dell'uomo è testimoniato da un'antica postazione militare abbandonata, oggi in mano a vandali e innamorati che lasciano messaggi d'amore e d'odio sulle pareti dell'edificio in rovina, e da un faro della Marina Militare automatico che illumina la notte grazie a due pannelli solari. 
 In questo luogo la presenza dello Ionio e del Mar Mediterraneo permette ai visitatori di avere, quasi sempre, una spiaggia battuta dal vento e l'altra unicamente dal sole. 
La si può raggiungere a piedi o a nuoto - onde, marea e correnti permettendo - e si presta a diverse attività, che vanno dal surf allo snorkeling (a nuoto è facilmente raggiungibile il relitto di una nave da carico situato tra la spiaggia dell'Isola delle Correnti e Carratois). 
 Nel litorale antistante l'isola si trovano lunghe spiagge dalle acque cristalline e panorami che, per la loro particolare vegetazione richiamano alla mente paesaggi esotici. 
Sulla terraferma è inoltre presente una targa commemorativa donata dal CAI. 
Questo luogo coincide, infatti, con l'estremità meridionale del trekking più lungo del mondo, il Sentiero Italia, 6.166 chilometri di cammino da Trieste all'isolotto, attraversando Alpi, Appennini e tutta la penisola italiana. 
 È l'ideale per chi vuole rilassarsi a diretto contatto con la natura, lontano da luoghi affollati e chiassosi, ma è anche meta preferita di flussi migratori di uccelli provenienti dalle coste sudafricane che in primavera si riproducono in Italia e di tartarughe caretta caretta che depongono le loro uova tra le dune della spiaggia antistante. 
Non di rado si trovano "recinti" che segnalano agli avventori di fare attenzione a dove mettere i piedi. Ma è importante ricordare che questo è anche mare di migranti. 
Portopalo, nel 1996, è stato scenario di uno tra i più grandi disastri del Mediterraneo dalla fine della Seconda Guerra Mondiale e rimase tale sino al naufragio di Lampedusa del 2013. 
Una vecchia nave di legno, gravemente sovraccarica dal trasporto di clandestini provenienti da India, Pakistan e Sri Lanka, affondò causando la morte di almeno 283 persone. 
Una tragedia che viene ricordata come il "naufragio fantasma". Questo luogo di incontro di mare, di venti e di correnti non è solo un paradiso naturale, ma è e deve essere ricordato soprattutto per quel che rappresenta: un punto di commistione di culture, un passaggio storicamente aperto di popoli che hanno contribuito a rendere la Sicilia ciò che è adesso.


foto wiki

12 giugno 2020

Come i nonni costruivano piccoli oggetti in legno


Pialla

La lavorazione del legno è stata una delle prime arti dell’uomo: dalle clave e dalle lance agli albori della civiltà, agli aratri usati nell’agricoltura, agli sgabelli a tre gambe fino alle complesse strutture dell’epoca moderna.
Prima degli anni 1930-40 quasi in ogni famiglia vi era un falegname, o comunque qualcuno che sapesse lavorare il legno.
Al Coindo di Condove il fratello di mio nonno Cordola Michele (1846-1929) era un buon falegname, e non aveva appreso il mestiere dal padre ma lo rubava con gli occhi dagli altri cioè attraverso el’osservazione attenta, l’imitazione e il buon senso,
come tutti i falegnami del passato lavorava tutto a mano.
A mano abbatteva, segava e trasportava i tronchi.
In un angolo della casa aveva costruito un banco da lavoro con la morsa sempre di legno, per poter stringere e tenere fermo il legno da lavorare.
Questa parte della casa era sempre ingombra e disordinata.
Almeno così appariva, in terra c’era sempre segatura e trucioli di diversa grandezza e dimensione, a seconda del legno, del pezzo e della pialla.
Alle pareti erano appoggiate travi, travicelli e arnesi attaccati ai chiodi:
seghe, trapani a mano e via dicendo.
Il legno usato era quello locale: principalmente il faggio, il frassino, il castagno e il maggiociondolo, legni resistenti utilizzati sia per sgabelli e panche che per la costruzione di attrezzi agricoli e slitte. Coi suoi lavori Michele riempiva le lunghe giornate invernali alla luce di una candela o della lampada a petrolio preparando gli attrezzi per trattare il legno ricavandone gli strumenti ed oggetti necessari per le attività quotidiane come sgabelli, gerle, slitte, ciotole, sporte, stampi per il burro e forme per le tome. Di sudore ne colava parecchio.
A quell’epoca i pochi mobili di una famiglia erano costruiti in proprio.
Si trattava di arte povera limitata alle cose essenziali cioè armadi, sedie, tavoli, cassapanche, sgabelli e tutto ciò che poteva servire in casa, con un lavoro di pialla e scalpello.

10 giugno 2020

Un solo medico per i lavoratori marittimi di Pozzallo. Prima erano due

 

Un solo medico per i marittimi di Pozzallo, mentre prima erano due. Sempre più complicata la situazione che da parecchi mesi sta interessando i lavoratori marittimi Pozzallo.


A lanciare l'allarme è Nino Giannone responsabile della Fit Cisl area marittimi di Ragusa Siracusa, che sottolinea come dal maggio 2019 a garantire il SANS (Servizio Assistenza Sanitaria ai Naviganti) vi è solo un medico, quando precedentemente erano due

Nonostante l'encomiabile impegno dell'unico ed attuale medico, la situazione non è più sostenibile con code interminabili per visite di pre- imbarco e visite biennali, oltre alle normali visite di malattia.

" Il tutto - aggiunge Giannone - tra pochi mesi potrebbe aggravarsi visto che l'unico medico incaricato dovrebbe andare in pensione e si prospettano possibilita' che non verra' sostituito, pertando, i disservizi che si presenteranno saranno maggiori.


Inps marittimi sempre più abbandonati, 
a Pozzallo un solo medico 
per i lavoratori marittimi (prima erano due).
A Napoli L'Inps continua a non pagare i lavoratori in malattia.


La repubblica Italiana è fondata sul lavoro. Il diritto al lavoro è un diritto fondamentale per ogni cittadino, come è un diritto essere curato quando si è in malattia ed essere retribuito nel suo periodo di non lavoro.

Ebbene nel leggere queste poche righe sembra che per i lavoratori del mare questa regola non esiste sia quando la fortuna di poter lavorare, sia quando la sfortuna di essere ammalato.

Abbiamo più volte pubblicati articoli di marittimi che in alcune zone d'Italia, per essere curati o farsi prescrivere qualche medicinale sono costretti a percorrere Kilometri dalla loro abitazione,e il motivo era o per chiusura sede del proprio luogo, o mancanza di medico fiduciario.

Cisl Nino Giannone che sottolinea come da maggio 2019 a garantire il servizio sanitario per i lavoratori marittimi c'è un solo medico quando precedentemente erano due. 
Tra pochi mesi questa situazione potrebbe addirittura aggravarsi in quanto il medico incaricato 
andra' in pensione e si prospetta la possibilità che non venga sostituito.

Situazione diversa a Napoli dove i marittimi denunciano che da mesi dall'Inps di competenza non ricevono soldi, ma quello che più grave non riescono neanche a sapere i motivi.

A dirte il vero pochi giorni fa' l'Associazione dei Marittimi del Futuro (associazione di Torre del Greco) il presidente Vincenzo Accardo era riuscito ad avere un incontro con il dirigente responsabile dell'Inps di Napoli e tra le varie cause dei mancanti pagamenti gli era stato detto che causa pandemia gli addetti dell'Inps sono stati costretti a lavorare in formato ridotto e chi addirittura da casa, ma poi c'erano dei problemi anche sulla spedizione del cartaceo. 
L'Associazione dei Marittimi si e' fatta garante per inviare all'INPS le certificazioni 
per tutti i loro soci e nello stesso tempo di controllare le varie pratiche che da mesi non vengono liquidate e per capire i veri motivi..

07 giugno 2020

S/S Duca D'Aosta


Prof.  Antonio Carmelo Monaca



25 gennaio 1921 S.S. Duca D'Aosta in partenza da Genova, Italia Il 25 gennaio 1921 - Navigando sulla S.S. Duca D'Aosta da Genova, Italia verso gli Stati Uniti d'America, Port New York. Manifesto per le famiglie che viaggiano insieme da Dernice, Montacuto, Fabbrica Curone - Alessandria, Italia. 




 3 gennaio 1920 – Porto di Napoli 
La S/S Duca d’Aosta si appresta a levare gli ormeggi. 
La società Navigazione Generale Italiana dal 1914 al 1921 utilizzò questa nave sulla linea Genova – New York. 
Poteva trasportare 80 passeggeri in prima classe, 16 in seconda e millesettecentoquaranta in terza classe. 
La terza classe era “…dolore e spavento e puzza di sudore dal boccaporto e odore di mare morto” come la descrive De Gregori nella sua Titanic. 
Era la classe dei poveri, spesso dei disperati, di chi sperava di trovare in America la fortuna che l’Italia non era riuscita a dare. 
Un pozzallese, uno dei tanti, era già stato in America e lì aveva lasciato la moglie, Antonia Salonia. Era rientrato a Pozzallo per sistemare alcuni affari di famiglia e con la Duca d’Aosta ritornava a casa. Dopo il matrimonio, nel 1910, era partito con la moglie, il fratello e la cognata. 
A new York abitava al n. 151 di Union Street, la strada dei pozzallesi. 
Aveva trovato un lavoro dignitoso che gli permetteva di guadagnare il necessario e, con qualche sforzo in più, metteva soldi da parte per poter, un giorno, mettersi in proprio. 
Cosa può fare un pozzallese senza scuola, senza un mestiere, senza particolari abilità in una terra, in una metropoli che richiamava disperati da ogni parte del globo illudendoli con l’ormai famoso sogno americano? Il “camallo” può fare, lo scaricatore di porto, il “longshoreman”, come lo chiamano gli americani con il loro inglese cantalenante. Partita il 3 gennaio, forte delle sue caldaie che le permettevano di viaggiare a 16 nodi (circa 30 Km/h), la Duca d’Aosta arrivò a New York il 25. 
Il pozzallese Giovanni Colombo figlio di Ignazio, sarto, e di Emmanuela Vindigni, donna di casa, si ricongiunse con la moglie ed il fratello. 
Trasferì la residenza in una nuova casa, al 121 di President Street, parallela della Union Street per avere più spazio e più intimità. 
Riprese il suo lavoro al porto e, per guadagnare di più, accettò di fare i turni di notte. 
La mattina del 13 marzo, alle 3, al porto di Staten Island, Contea di Richmond, New York, Giovanni si trovava su un bastimento a vela, sul bordo di uno dei boccaporti della nave impegnato a controllare il lavoro dei bighi di carico. 
Certo l’illuminazione non era quella di cui dispongono i porti moderni, i turni di riposo non erano codificati come oggi, le norme antiinfortunistiche non erano così stringenti e vincolanti per le ditte che si occupano di scaricazione delle navi, fatto sta che Giovanni si sporse un po’ più del dovuto per meglio guardare il fondo della stiva, perse l’equilibrio, cadde. 
Il suo corpo di fermò su una cassa 10 metri più in basso. 
Fu immediatamente soccorso ma non c’era più nulla da fare. Trasportato all’Ospedale di Staten Island, i sanitari ne constatarono il decesso dovuto a frattura della terza vertebra cervicale con conseguente emorragia per rottura della carotide. Fu sepolto nel cimitero di Linden Hill. 



(Foto da Google Maps. La prima 151 Union Street, la seconda 121 President Street, la terza la Duca d'Aosta)

06 giugno 2020

Salvatore Giuffrida





Luigi Rogasi Pozzallesi del xx secolo

 SALVATORE GIUFFRIDA
 Rino, maestro elementare 
Pozzallo, 25 marzo 1922 Ispica, 8 febbraio 1993 
Salvatore Giuffrida Figlio di Giuseppe Giuffrida e di Concettina Barone, Rino frequentò le Scuole Elementari a Pozzallo e l’Istituto Magistrale a Modica, dove si diplomò maestro nel 1942: in pieno periodo bellico, nella speranza di trovare lavoro, si trasferì a Bologna, invitato da uno zio colà residente, grazie al quale fu assunto come Applicato in Comune a partire dal 1º settembre 1943. 
Rimase comunque nella città felsinea soltanto due anni, rientrando a Pozzallo a fine maggio 1945, abbandonando quindi anche la Facoltà di Economia e Commercio "Ca’ Foscari" di Venezia dove si era iscritto al suo arrivo a Bologna Trovandosi però senza lavoro, decise di riprendere gli studi presso l’Istituto Universitario Orientale di Napoli, incontrando tuttavia non poche difficoltà per raggiungere il capoluogo campano: nell’attesa di una supplenza nella scuola elementare, si convinse allora di restare a Pozzallo cominciando ad osservare passo passo l’avvio dei primi movimenti politici, che da noi erano in fermento fin dallo Sbarco Alleato in Sicilia, decidendo alfine di prendervi parte, visto che ne avvertiva senza dubbio il fascino. 
 In un primo momento aderì al Partito Repubblicano Italiano, tuffandosi nel dibattito politico, con una grinta tale da farne un oratore facondo e coinvolgente: al tempo del Referendum Istituzionale del 2 giugno 1946, si schierò logicamente per la Repubblica, poggiando le sue tesi su argomenti legati alla nostra storia risorgimentale verso la quale era spinto da una particolare predisposizione. Vittorio Emanuele II e Cavour non gli piacevano, mentre Garibaldi e Mazzini lo affascinavano: gli uni e gli altri, erano comunque il cavallo di battaglia sul quale riusciva a condurre sempre i suoi interlocutori, a volte in mezzo al Corso o in Piazza Municipio, circondati da gruppi in ascolto. Già dai tempi della scuola, la nostra storia nazionale era sempre stata la sua materia preferita, approfondita via via su libri più completi, motivo per cui i suoi dibattiti pubblici venivano seguiti con interesse crescente. La scelta della forma repubblicana gli recò peraltro motivo di soddisfazione, ritemprando le forze per nuove lotte, dalla parte questa volta del Partito Socialista Lavoratori Italiani prima e del Partito Socialista Italiano poi, ritenuto da lui come il più adatto a sostenere le idee socialiste in maniera più incisiva. Idee chiare che sapeva analizzare e presentare con convinzione nei comizi che si tenevano allora in Piazza Rimembranza sempre con maggiore frequenza: battagliero come sempre, fiero delle sue idee, non indietreggiò mai dinanzi ad interlocutori altrettanto battaglieri e, soprattutto, di un certo spessore politico. Perché Rino Giuffrida aveva la politica nel sangue e sapeva viverla con passione, guardando al futuro con mille speranze.


 Salvatore Giuffrida Quanto sopra non lo distolse tuttavia dal lavoro: il 22 gennaio 1949 aveva infatti cominciato il suo insegnamento a Pozzallo, mettendo nel suo impegno quotidiano quella carica umana che è propria degli uomini di scuola.
 Il rapporto docente-discente era improntato nel rispetto di ognuno, aiutando le coscienze a crescere, abituando i più piccoli al ragionamento, spronandoli alla lettura, allo studio serio, alle deduzioni personali, all’amore per il prossimo, alla socializzazione: era, soprattutto, amico dei suoi ragazzi, mentre i colloqui con le famiglie erano sempre aperti e cordiali. 
 Amava fra l’altro la scuola all’aperto perché gli offriva l’occasione di parlare della bellezza della campagna nelle varie stagioni, del mare e dei marosi, del volo dei gabbiani, delle corse degli animali, della creta di Pietre Nere e della sabbia fine e dorata delle nostre spiagge: perché è lí che li portava, a Pietre Nere, a Raganzino, alla Balata, al Caricatore, luoghi cari alle generazioni che nell’arco dei secoli si sono succedute nella nostra cittadina. 
 Alle sue qualità di docente scrupoloso, bisognava anche aggiungere l’intuito del giornalista che seguiva e registrava puntigliosamente la cronaca locale con articoli che venivano pubblicati sui periodici della provincia ed oltre. 
Ma la politica restava tuttavia il suo cavallo di battaglia: eletto Consigliere Comunale nelle Amministrative del 1946, diventò Assessore e Vice-Sindaco quando Sindaco pro-tempore era Vincenzo Romeo, affrontando con lui l’emergenza tifo. 
 Il suo fu un impegno politico-amministrativo ben variegato, a cominciare da quello per il porto ai problemi della scuola locale, dai primi fondi per la Biblioteca Comunale all’apertura del Centro di Lettura, dai problemi dell’acquedotto ai lavori per il nuovo Ufficio Postale di via Enrico Giunta, senza trascurare peraltro i Servizi Sociali che crescevano di pari passo con l’evolversi dei nuovi problemi legati alla nostra cittadina. 
 Ed agiva suggerendo prima le idee che, con fare battagliero, sosteneva poi nelle sedute del Consiglio Comunale: fu capo dell’opposizione invece quando l’Amministrazione Civica era Democrazia Cristiana, mirando sempre al bene di Pozzallo, città alla quale era molto legato. 


 Salvatore Giuffrida Sempre aggiornato sugli avvenimenti nazionali, abituato alla lettura, dalla memoria incredibilmente ricca di ricordi, sorprendeva quasi sempre per la nitidezza di date e dati su cose e persone che in qualche modo avevano suscitato eco nella sua vita. 
 Queste sue qualità subirono purtroppo una brusca frenata: la vita gli aveva riservato infatti delle sorprese che l’avrebbero tormentato in maniera sempre più amara. Dei sintomi di alienazione cominciarono ad alterare la realtà ed a rendere la sua mente quasi inerte, anche se sprazzi di memoria arrivavano e sparivano nello spazio di pochi attimi: in uno di questi rari momenti di lucidità, il 28 marzo 1970 si dimise da Consigliere Comunale ed il 13 novembre 1972 dalla Scuola. 
 Due passioni, la politica e la scuola, che avevano dato alla sua vita grandi soddisfazioni che tuttavia non era più in grado di gestire. 
 Maturava intanto in lui il desiderio di raggiungere Bologna in un inconscio desiderio di stare accanto allo zio Giovanni, della cui rassicurante protezione sentiva il bisogno: nel 1972 decise di prendere il treno, portandosi dietro la madre ed il fratello, la sua famiglia. Sopraggiunta la notte, senza motivo alcuno, decisero improvvisamente di scendere a Salerno proprio quando imperversava un violento nubifragio sulla città. Non sapendo dove andare, trovarono rifugio nell’androne di un palazzo vicino alla Stazione Ferroviaria, dando cosí inizio ad un calvario senza fine: a notte fonda, Rino cominciò a dare in escandescenze, obbligando una camionetta della Polizia a fermarsi per controllare la situazione. Dopo un sommario interrogatorio, il gruppo venne accompagnato all’Ospedale Psichiatrico di Nocera Inferiore: rendendosi tuttavia conto che avevano perso la loro libertà, Rino inviò petizioni su petizioni alla Magistratura locale, chiedendo con forza il rilascio suo e dei suoi, nel rispetto dei diritti civili garantiti dalla nostra Costituzione e dalla risoluzione dell’ONU, accusando addirittura i responsabili di sequestro di persona. Qualche mese più tardi furono rilasciati la madre ed il fratello che raggiunsero subito Pozzallo mentre, per lo sfortunato Rino, il domicilio coatto durò fino al suo trasferimento all’Ospedale Psichiatrico di Siracusa in base alla Legge Basaglia, resa esecutiva proprio allora. Fu quello un susseguirsi di situazioni penose con risvolti sempre diversi: anche la morte della madre aveva contribuito a sprofondarlo in uno stato mentale sempre più precario che perfino la compagnia del fratello contribuiva a rendere ancora più fragile. Le cose migliorarono soltanto in seguito all’assegnazione di un curatore da parte dell’Autorità Giudiziaria nella persona di Giuseppe Barone, figlio di un fratello della madre: rientrato a Pozzallo nel 1978, la sua mente riprese purtroppo a vagare in un buio dal quale non riusciva a sottrarsi e che lo portava a travisare maggiormente la realtà. 
Era un continuo altalenarsi di lucidità e di oscurità, di lampi di memoria e di ombre che lo conducevano errante per le vie di Pozzallo, sostando a volte con gli amici che lo avvicinavano e che egli riusciva a riconoscere, alzando spesso la voce per rimembrare con loro il pezzo di passato che in quell’istante gli si presentava in mente.
 La paranoia lo portava ad isolarsi in un mondo tutto suo, dal quale neanche i pochi parenti rimasti riuscivano a sottrarlo, né gli amici di sempre, i compagni della politica, i colleghi insegnanti o i suoi ex-allievi: guardava tutti con uno sguardo sempre più assente, mentre i contatti umani cominciavano a sfaldarsi dinanzi alla incomunicabilità che lo spingeva, suo malgrado, verso una solitudine che rendeva nullo ogni tentativo di chi voleva aiutarlo.
 A questo punto fu accompagnato in una clinica privata di Siracusa, passando poi nel Reparto Psichiatrico del Busacca di Scicli: dimesso a fine 1978, anno cruciale per la sua malattia, la situazione continuò a diventare più difficile arrivando a bruciare ben 25 milioni di lire facenti parte dei risparmi familiari mentre, alcuni anni dopo, trovò naturale distribuire banconote da 50 e da 100 mila lire ai ragazzi della Scuola Media e dell’Istituto Tecnico Nautico. Furono necessarie allora altre restrizioni: ritornò quindi al Busacca di Scicli, poi alla Casa di Cura Opera Pia Carpentieri sempre di Scicli, per essere infine accolto presso il Residence Geriatrico Mozzicato di Santa Maria del Focallo. Da qui poteva raggiungere ogni tanto la sua città natale, accompagnato però dal suo curatore al quale, nei momenti buoni, ripeteva che si sentiva ormai "un fossile" e che "non aveva più voglia di vivere". Non voleva quindi "vegetare" per "non dare peso a nessuno". La morte lo raggiunse nella stessa clinica la notte dell’8 febbraio 1993 per collasso cardiocircolatorio, causato probabilmente da edema polmonare: una morte improvvisa che colpì una cittadinanza che per diversi anni ne aveva seguito con trepidazione le drammatiche vicende. I funerali furono celebrati in forma strettamente privata nella Chiesa Madre di Pozzallo dal Parroco don Giuseppe Di Rosa, alla presenza dei parenti, degli amici e dei vecchi compagni del Partito Socialista che ne accompagnarono la salma al Cimitero, tumulata in un loculo della Società Operaia della quale aveva fatto parte. Purtroppo, come può capitare in politica, per alcuni Rino Giuffrida era già scomparso da tempo, dimenticando presto il suo vigore e la sensibilità dimostrati con entusiasmo nel tentativo - che era anche speranza - di migliorare proprio la politica: purtroppo, eventi imprevedibili cambiano spesso il corso della vita, senza riuscire peraltro a ricondurlo nel suo alveo naturale. Con lui, sfortunato figlio della nostra gente, la vita non era stata certamente benigna: vogliamo tuttavia ricordarlo qui con l’affetto che merita la sua memoria di persona buona ed intelligente, ricca di umanità, sensibile oltre ogni dire, che fu amata e che seppe amare, che si prodigò sempre per gli altri e mai per sé. Per quanti ebbero il piacere di frequentarlo e di essergli stati amici, egli fu soprattutto un amico sincero, mai infido o sleale, uno studioso apprezzato, una persona colta, un politico attento e sensibile alle esigenze dei suoi concittadini. Vogliamo conservare di lui il ricordo dei suoi anni migliori: il ricordo di un amico caro, aperto, cordiale, simpatico, di un docente che seppe entrare nel cuore dei suoi alunni, un politico battagliero, dalla parola forbita e penetrante, che ebbe sempre la fierezza di lottare in nome degli ideali ai quali dava il valore più grande. Un amico che resterà nella memoria di quanti nel corso degli anni, per un motivo o per un altro hanno fatto con lui un percorso comune: nell’infanzia o nella giovinezza, nella scuola o nella politica, nel nome di un’amicizia che aveva sempre saputo dimostrare con fatti e parole, cementata dall’amore per una città cara a noi tutti. Una città che, nel ricordarne la memoria, guarda ai valori che sono stati il fondamento della sua vita, resa purtroppo amara dall’avversità del destino.

03 giugno 2020

Un cuntu





Quannu n celu 'n ancileddu, nun fa chiddu ch'àvi a fari,
lu Signuri, prestu prestu a San Petru fa chiamari.
E ci dici: “St'ancileddu, oggi ha fattu na mancanza; vallu a mettiri a lu scuru,
chiusu dintra di na stanza.
 E lu teni a pani e acqua senza autru manciari!
 E si chianci e grida forti, lassa chianciri e vuciari!” - Signuruzzu, pirdunati- dici Petru- è nicareddu. Spissu ha statu pirdunatu, n'approfitta, ora, stu beddu.
“Portatillu va, fa prestu, bonu ora ci finiu.
 E tu cchiù nun t'ammiscari, iu cumannu n Paradisu!”
 E San Petru, alleggiu alleggiu, nesci di dda murtificatu e si porta l'ancileddu ch'àvi a essiri castiatu. L'ancileddu chianci e grida nta lu scuru di la stanza:
 "Nun lu fazzu cchiù, pirdunu, pirdunati sta mancanza!
 " Nuddu a iddu s'avvicina, nuddu senti la so vuci.
 Ma di notti a Bedda Matri va e ci porta 'i cosi duci.
 (Anonimo)

02 giugno 2020

Carmelo Assenza



  Meno Assenza, 
 fotografo Pozzallo,

Quartogenito di Antonino Assenza e di Giorgina Nanì dopo aver frequentato Pozzallo la scuola Elementare completò gli studi secondari all'Istituto Magistrale di Modica, trascorrendo nel contempo parte della sua giovinezza nelle file del Circolo "San Tarcisio", frequentato allora da giovani che guardavano alla vita con mille speranze ed animato dall'infaticabile don Ciccino Gugliotta, sacerdote di grande cultura e vera tempra di educatore. 
Appartenendo tuttavia ad una famiglia di artisti, Carmelo respirò ben presto l'atmosfera che aleggiava in casa e che ,fin da piccolo ,quasi per gioco lo aveva spinto ad interessarsi all'attività del padre: da lui apprese infatti l'abc dell'arte fotografica, facendo tesoro dei consigli che gli avrebbero permesso in futuro di affrontare un lavoro che richiedeva versatilità, pazienza e vocazione .
Suo padre fu senza dubbio il modello da seguire, assimilando giorno dopo giorno i segreti di un mestiere che avrebbe anche potuto segnare la sua vita , specialmente in un periodo di precarietà per le incertezze causate dalla guerra.
Purtroppo le continue incursioni aeree su Pozzallo (con borbardamenti e mitragliamenti a bassa quota) ed il serio danneggiamento della loro casa-studio di via , Solferino 121 , crearono agli inizi del 1943 veri problemi di sopravvivenza da costringere tutta la famiglia a trasferirsi a Roma, dove i due figli maggiori operavano già da alcuni anni.
Il padre fu subito accolto nel famoso "studio" di Elio Luxardo dove ebbe modo di mostrare tutto il suo talento: anche Carmelo - pur frequentando la Facoltà di Lettere - presto la sua Opera presso lo stesso laboratorio, gratificato peraltro dalla possibilità di approfondire meglio le nuove tecniche di un'arte che, al bianco e nero, univa gli effetti del colore. Quando però, nel 1945, la fine della guerra permise la riunificazione delle "due Italie - quella del sud e quella del nord - gli Assenza rientrarono a Pozzallo, attivandosi a restaurare casa e studio, condizione indispensabile per la ripresa dell'attività e l'acquisizione della vecchia clientela: in questo laborioso avvio, don Ninì ebbe il valido aiuto di Carmelo che gli rimase accanto, collaborando soprattutto con lui nei lavori esterni.
Come tutti i giovani della sua eta', a 25 anni s'impose il problema del servizio militare, rinviato fino ad allora per motivi di studio: ne sollecitò quindi l'dempimento al fine di poter disporre di maggiore libertà nelle sue sceltefuture.
Ai primi di giugno del 1948 raggiunse quindi il Centro Addestramento Reclute di Siena, dove rimase per il solo addestramento, continuando a restare tuttavia in Toscana - Firenze , Pisa e Grosseto - con l'incarico di "fotografo" del Battaglione: nei momenti di relax e di libera uscita, la sua macchina fotografica non rimase infatti mai inattiva, riprendendo da par suo monumenti e paesaggi di una terra dal fascino particolare, universalmente apprezzata per le sue ricchezze artistiche e le sue bellezze naturali. 
A congedo avvenuto, nel 1949 Meno Assenza rientrò a Pozzallo dove aveva gia' conosciuto Clara Crispo, una giovane arrivata con la famiglia dalla Tunisia nell'immediato dopoguerra assieme ad altri connazionali che in quello Stato avevano costruito il loro avvenire: al loro arrivo raggiunsero però un campo di accoglienza del Nord dove furono invitati a scegliere una sede fra mare o montagna. 
I Grispo, assieme ad altre famiglie, scelsero il mare ed il sole: furono allora assegnati a Pozzallo, trovando alloggio nei locali della Colonia Marina fino alla sistemazione in abitazioni di loro gradimento. 
Seguì tuttavia un rientro in Tunisia per questioni rimaste in sospeso in quello Stato: per questo motivo le loro nozze furono celebrate "per procura" il 10 luglio 1950.
Al rientro in Italia della moglie, gli sposi misero su casa, allietando in breve la loro vita con la nascita di Ninì, il primogenito, evento che portò Carmelo ad accettare l'incarico d'insegnamento presso la Scuola Elementare Giacinto Pandolfi: nello stesso periodo vide peraltro la luce anche Massimo, il secondogenito.
Per niente convinto di continuare a fare il maestro, al termine del secondo anno egli decise di dedicarsi soltanto alla professione di famiglia, della quale sentiva il richiamo: logicamente, con grande sollievo del padre che cominciava a sentire il peso degli anni. 
Per di più, in quel periodo segnò l'inizio della sua esperienza politica che lo coinvolse nei problemi della gente e della città: nei primi anni Cinquanta aveva infatti aderito al Partito Comunista Italiano, del quale , a livello locale, divenne presto uno degli uomini di punta.
Nel 1956 fece parte del Consiglio Comunale, accettando nelle politiche del 1958 la candidatura alla Camera dei Deputati (Circoscrizione della Sicilia Orientale). Pur non trascurando i quotidiani impegni di famiglia e di lavoro, Carmelo Assenza fece anche parte del gruppo di artisti ed intellettuali pozzallesi e non, che fondarono il Circolo Culturale 'a Barracca con l'intento di affrontare i problemi del momento: per quel drappello di giovani, quella fu una stagione indimenticabile che favorì soprattutto la nascita del giornale - parlato Ara', che, dal 1956 al 1958 , nelle competizioni elettorali diede "voce" ad una garbata e pungente ironia, diretta principalmente agli avversari politici del tempo.
Ma la vita, così piena di speranze, di risorse e di qualità umane e civili, non gli fu purtroppo benigna: ricoverato d'urgenza all'ospedale "Umberto I" di Roma vi morì il 28 maggio 1959, dopo un difficile intervento chirurgico, pochi mesi prima della nascita di Minù, l'ultimogenita. 
Aveva 36 anni: proprio pochi per un giovane fotemente motivato, che avrebbe ancora potuto dare il meglio di sè alla famiglia ed alla professione, alla società ed alla politica, quest'ultima considerata come un toccasana per i problemi di una città in crescita. 
Una crescita della quale, grazie alla sua arte e pur nella brevità, egli era stato testimone ritraendo, secondo le tradizioni famigliari, tutto quello che aveva potuto: processioni religiose e cortei politici, comizi e sagre popolari, manifestazioni sportive e culturali, parroci e Vescovi, ministri e deputati, personaggi locali e protagonisti della politica. E poi : Battesimi, Prime Comunioini e Cresime, mare, spiagge, barche e bagnanti, torre e scogliera, albe e tramonti. Un vero caleidoscopio che, attraverso le immagini, aveva accompagnato il progredire della città che amava e per la quale anche lui a suo modo, aveva scritto alcune pagine della sua storia: grazie ad un "obiettivo" sempre attento e curioso delle nostre memorie. Poco dopo la sua scomparsa, i compagni del P.C.I. vollero intitolargli la sezione cittadina, a ricordo di un uomo che aveva saputo offrire al popolo generosità, intelligenza, impegno e disponibilità: di un giovane che continua a vivere nel ricordo di quanti pur non condividendo le sue idee ne avevano apprezzato qualità, aperture simpatia, affabilità, ironia e carattere. La sua figura e' stata ricordata piu' volte in manifestazioni politich, artistiche e culturali mentre, in varie mostre fotografiche, cataloghi opportunamente illustrati hanno messo in risalto Irsquo; opera sua e quella della sua famiglia: nell'aprile 2000 infine, a 41 anni dalla sua scomparsa, i suoi resti sono stati traslati da Roma a Pozzallo dove, nella cappella di famiglia, riposano accanto alla moglie, al padre e ad altri familiari. Il suo ricordo continuerà nel tempo, assieme a quello di altri nostri concittadini che hanno lasciato il segno della loro presenza terrena.

 NOTE 
 IL Circolo Culturale 'Barracca animò la vita politica cittadina dal1956 al 1958. Oltre a Rodolfo Cristina, ne furono fondatori Carmelo Pluchinotta, Meno Assenza, Giovanni Castaldo, Giovanni Armenia, Salvatore Rovella, Natalino Amodeo, Franco Rosa ed altri. 
IL Circolo prese il nome di Barracca "Porcelli", prospiciente la Balata, di proprietà di Rodolfo Cristina, dove il pittore svolgeva la sua attività artistica.
Arà era il giornale parlato del Circolo. 
Le iniziali Autonomia, Rinascita, Amministrazione. Voci femminili furono quelle di Clara Crispo e della signora Mollica, maschili quelle di Giovanni Castaldo e di Salvatore Rovella.

 Luigi Rogasi, POZZALLESI DEL XX SECOLO

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                         - Silvana La Pira -

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