29 settembre 2020

"Clara Crispo "




’a Assenza, ’a riṭṛattista
 Sfax (Tunisia), 21
 novembre 1924 Pescate (Lecco), 11 maggio 1995

 Clara Grispo Giovane, bella, distinta, appartenente ad una famiglia italiana emigrata in Tunisia a fine Ottocento, Clara Grispo arrivò da noi dopo la Seconda Guerra Mondiale quando, nel 1945, i nostri connazionali ivi residenti furono rimpatriati secondo precisi accordi internazionali. Giunti in Italia via mare, furono avviati verso i centri di accoglienza allestiti in Toscana, dove sarebbero rimasti il tempo necessario per operare la scelta di una residenza stabile: i Grispo preferirono Pozzallo, località marittima che rispondeva meglio alle loro esigenze. 
 Vi giunsero alcuni mesi dopo, trovando immediata sistemazione nei locali della Colonia Marina, dove rimasero fin quando tutti ebbero la possibilità di stabilirsi in abitazioni più consone alle loro aspettative.
 L’incontro di Clara con Meno Assenza fu il classico colpo di fulmine che avvicinò due giovani fatti l’uno per l’altra: le nozze furono celebrate il 1º luglio 1950, per procura, dato che la sposa e famiglia erano state nel frattempo richiamate in Tunisia per dirimere alcuni importanti problemi riguardanti le loro proprietà. 


 Poco tempo dopo Clara rientrò comunque a Pozzallo, cominciando la sua nuova vita di sposa che l’avrebbe peraltro impegnata presto come mamma: di lì a poco nacque infatti Ninì, seguito nel 1953 da Massimo, il secondogenito. 
 Come moglie, cominciò ad interessarsi subito del lavoro del marito, stimolandolo fra l’altro nel suo desiderio di partecipare ed affrontare le lotte civili e politiche. 
 Desiderio che era tuttavia condiviso da entrambi: cosicché, famiglia, educazione dei figli, lavoro e politica furono il fulcro attorno al quale era imperniata un’esistenza che diventava ancora più ricca di valori. 
 Clara gli fu sempre al fianco, in perfetta comunione d’intenti che non lasciavano comunque prevedere o intuire i giorni tristi che di lì a poco avrebbero trasformato la loro vita: l’improvvisa malattia del marito ed il suo immediato ricovero all’Ospedale "Umberto I" di Roma nel tentativo di salvargli la vita, lo portarono purtroppo alla morte il 28 maggio 1959 mentre lei era in attesa della terzogenita, Minù, nata tre mesi dopo il luttuoso evento. 
 Furono quelli momenti di grande dolore, di angosciosi stati d’animo, di sofferenze e di incertezze, lontani un abisso dai sogni dorati della sposa felice qual era stata: a volte la disperazione aiuta però a reagire con forza, per dare valore alla vita e, soprattutto, per trasmettere il vigore e gli stimoli miranti al futuro dei figli.
 Ad un certo momento, la luce ha illuminato il suo cammino, le ha fatto trovare la forza di superare lo scoramento, dimostrando prima a se stessa e poi agli altri, grinta e determinazione nel suo impegno di madre coraggiosa. 
 Ed il suocero, pur nel costante e struggente dolore di padre, le fu straordinariamente vicino, guidandola - ahimè per poco - nell’attività del marito, riuscendo a trasfondere in lei i segreti del mestiere e, nello stesso tempo, sicurezza ed autonomia: don Ninì morì infatti il 13 dicembre 1960, lasciandole in retaggio l’amore per la professione ed il compito di andare avanti, guardando al futuro con speranza. La gente capì il dramma di questa donna, nel contempo fragile e forte, apprezzandone la forza d’animo, la volontà di affrontare la stessa attività del marito, del quale avvertiva costantemente la presenza: un lavoro di famiglia duro ma appagante, diventato per Pozzallo quasi un’istituzione, da trasmettere quindi ai figli, superando angosce e difficoltà non indifferenti. 
Ed i figli, che le furono molto vicini, s’immedesimarono nelle sue preoccupazioni materne, seguendola nella sua professione, entrando alfine anche loro in attività, a cominciare da Ninì nel 1968, seguito nel 1971 da Massimo: e fu per loro un impegno pieno, fotografando personalità, manifestazioni varie, cerimonie pubbliche e private, ecc. Purtroppo, gravi motivi di salute arrestarono bruscamente le sue giornate, sempre così piene di movimento: colpita infatti da leucemia, dopo due anni di sofferenze che la portarono più volte in ospedale, 
Clara si spense a Pescate, in provincia di Lecco, a casa di sua figlia, l’11 maggio 1995, presenti i tre figli e i familiari. 
 Aveva 71 anni. Donna intelligente ed intraprendente, aveva sempre dato l’impressione della donna battagliera, che aveva saputo farsi apprezzare per capacità, affabilità e naturalezza, con le quali si era inserita in mezzo alla nostra gente: tanta era ormai in lei la "pozzallesità" che appartiene ad ognuno di noi.
 Aveva soprattutto saputo tener alto il prestigio della professione di famiglia, affidata oggi ai figli che ne sono i continuatori diretti. E sarà probabilmente così anche per loro: in un cambio generazionale al passo coi tempi.
 
 Luigi Rogasi Pozzallesi del xx secolo

20 settembre 2020

" 'Mbriulata, la succulenta specialità contadina di Milena "



Nell’entroterra della Sicilia, tra Agrigento e Caltanisetta, si trova Milena (anticamente Milocca), un piccolo paese di 3mila abitanti dalla radicata tradizione agricola testimoniata anche dallo scrittore Leonardo Sciascia che nel suo libro “Occhio di capra” usa l’appellativo di “Milucchisi” 
come sinonimo di contadino. 
Campi di grano, coltivazioni di olive e mandorle, vigneti costituiscono la bella campagna dove si trovano tracce storico-archeologiche (non ancora ben valorizzate) delle epoche romana, bizantina, normanna e dove è interessante scoprire le robbe rurali, ovvero le abitazioni dei grossi proprietari terrieri di un tempo che costituivano “feudi pulsanti di vita e di storia”. 
Dalle robbe ai villaggi La particolarità di Milena è costituita proprio dalle robbe: a inizio Novecento queste sono state riunite in 13 villaggi che, insieme al centro urbano, formano ancora oggi l’abitato del paese. 
Le robbe prendono la loro denominazione dalle famiglie che le avevano costruite, ai villaggi invece, al momento della loro costituzione, sono stati dati i nomi di fatti e personaggi della storia italiana, come Vittorio Veneto, Cavour, Piave, Crispi, Roma, Mazzini, Garibaldi, Balilla. L’mbriulata di Milena Proprio dal carattere contadino di Milena, deriva uno dei suoi prodotti tipici. 
Si chiama ‘mbriulata e ce l’ha fatta scoprire una nostra lettrice del posto. Si tratta di un prodotto da forno che anticamente le massaie preparavano per i familiari che trascorrevano la giornata nei campi a lavorare la terra: una pasta sfoglia farcita con olive, patate, formaggio e tritato di maiale o frittuli (ciccioli di maiale). 
Gli abitanti di Milena sono molto legati a questa tradizione gastronomica, tanto che, ogni anno, il secondo venerdì di agosto, si celebra la Sagra della ‘mbriulata, per gustare questa specialità in compagnia con un buon bicchiere di vino. 
L’mbriulata di Milena Proprio dal carattere contadino di Milena, deriva uno dei suoi prodotti tipici. 
Si chiama ‘mbriulata e ce l’ha fatta scoprire una nostra lettrice del posto. Si tratta di un prodotto da forno che anticamente le massaie preparavano per i familiari che trascorrevano la giornata nei campi a lavorare la terra: una pasta sfoglia farcita con olive, patate, formaggio e tritato di maiale o frittuli (ciccioli di maiale). 
Gli abitanti di Milena sono molto legati a questa tradizione gastronomica, tanto che, ogni anno, il secondo venerdì di agosto, si celebra la Sagra della ‘mbriulata, per gustare questa specialità in compagnia con un buon bicchiere di vino. 

Mbriulata:
la ricetta Ingredienti:

Per la pasta: 
200 g di farina di semola, 
150 g di farina “00”, 
3 cucchiai di olio d’oliva, 
50 gr di strutto, 
20 g di lievito di birra, 
latte, 
sale, 
un albume.
 
 Per il ripieno:
 3 patate piccole, 
 300 g di carne di maiale tritata o di “frittuli” (ciccioli di maiale), 
 1 piccola cipolla, 
 6 olive nere snocciolate, 
 4 cucchiai di pecorino grattugiato, 
 olio d’oliva, 
 sale e pepe. 

 Preparazione

 Con le farine, l’olio d’oliva, il lievito di birra sciolto in un pò di latte tiepido e con una presa di sale, preparare un impasto piuttosto sodo e ben lavorato – se necessario, durante la lavorazione aggiungere un pò di acqua tiepida – quindi porre la pasta a lievitare per mezz’ora. 
Nel frattempo, pelare le patate, tagliarle a tronchetti e farle rosolare in una padella, con un pò di olio e sale. 
Mescolare la carne con un pò di sale e pepe. 
Ricavare dalla pasta una sfoglia dello spessore di qualche millimetro, cospargere un po’ di strutto sulla sfoglia e distribuirvi sopra le patate, la carne, le olive a pezzetti e la cipolla tagliata finemente. 
Cospargere con il pecorino e irrorare con un foglio di olio d’oliva, arrotolare la pasta sul ripieno e girarla, in modo da ottenere una spirale, quindi spennellare la superficie con l’albume sbattuto. 
Cuocere la “mbriulata” in forno caldo per una quarantina di minuti. 
Farla riposare per dieci minuti, prima di servirla.

18 settembre 2020

" La novella di Padre Sazio "

 

  Un dipinto del pittore Giuseppe Molteni

                       
  C’era una volta un parrino nel paese di Montepipi, padre Sazio Rodriguez si chiamava, che aveva due mani: una per acchiappare e l’altra per contarsi i picciuli delle offerte, dei battesimi, comunioni, matrimoni e funerali (si cuntava picciuli in ogni sacramento in buona sostanza). Uomo generoso e di buon cuore quando si trattava di apparecchiare la tavola per lui, quando invece aveva ospiti non si scordava mai di arricordare che santo Tizio, santo Caio e santo Sempronio, essendo stati timorati di Dio, vita di elemosina avevano fatto. Pane duro, formaggio addimurato e acqua di pozzo, questo era il menù fisso quando alla sua tavola sedeva un invitato; quando, al contrario, si trattava di fare il commensale in casa altrui non mancava mai di puntualizzare che ci voleva poltrona adeguata alle sue natiche da pastore, perché, oltretutto, vista la beatitudine del suo operato, e di questo non si faceva persuaso, al posto delle stigmate era stato colpito da altra piaga: come egli stesso amava enunciare in quella lingua, potendo vantare una quantomai non comprovata discendenza spagnola da nonno paterno di Saragozza, “estaba sufriendo de hemorroides”. Inoltre, prima di assittarsi, ci teneva a precisare che se non si trattava di pesce manco per le scarpe perse di Gesù Cristò si sarebbe messo a tavola; e che, almeno, se nessuno si era messo in testa di scombussolare il suo santifico stomaco, si doveva trattare di scampi, orata e bianco d’Alcamo a salire. Uomo di carità -per carità!- ma con l’unico difetto, ovviamente condizionato sempre dalla troppa rettitudine, che quando qualche morto di fame si appresentava in sagrestìa per picciuli gli diceva: “di unni vinisti di cca’? Vatinni di dda’!”; lo invitava, insomma, a non profittarsi della bontà di un servo di Dio; e, quando lo scortava sull’uscio della porta, non mancava mai di recitare tale precetto per istigare senso di colpa: “Fratello, ricordati che c’è sempre qualcuno che ha più fame di te. Tre Padre Nostro e tre Ave Maria!”. E quando suonava il telefono in piena notte, perché qualcuno era stato chiamato in paradiso senza preavviso, chiusa la cornetta, ‘na piroetta, ed esultava tipo gol di Van Basten in semifinale di Coppa Campioni. Un giorno meschino, crudele e caino, lo squillo gli cunzò uno scherzo del destino: il caso volle che a cogliersela quella notte fu Vito Bonriposo, il becchino del paese, nonché suo compagno di truffe, che stava a lui come Bonnie stava a Clyde. La mattina appresso la moglie del becchino, Assunta, Maria Catena, Addolorata, Croce di cognome, detta mala jurnata, si presentò al suo cospetto perchè prima delle vedovanze c’era da affrontare la fame dei picciriddi che rimanevano orfani di padre e di pietanze. Non ve la prendete con padre Sazio se sotto la scrivania si alzò la tunica e per scongiurare il cattivo presagio e, visto che gli mancava il sale e stava mastichiando un tozzo di pane, si getto nelle reliquie un po’ di farina di tumminia:la femmina nome troppo pesante teneva! “Patri Sa’, se parla la sottoscritta, la mettono in soffitta e buttano la chiave!” “Orsù, dunque, chi è costei”, e ogni virgola la farina di tumminia cadeva come grandine a dicembre, “per puntar dito contro chi di Dio è stato ill braccio e lo ha servito?” La donna si mise le mani nei fianchi: «per carità, patri Sa’, i vostri intenti sono buoni... se non fosse per il fatto che, zitto zitto, vi siete ammuccato Alì Babà cu tutti i quaranta ladroni!» Padre Sazio sudava, e quando sudava era chiaro che recitava; questo almeno lo sapeva chi con lui aveva ci aveva lasciato lo stipendio a carte e mangiato di malefatte. “Statti calma, torna in te, una nave è fatta di una poppa e di una prua.” e citando la parabola del figlio il prodigo aggiunse scaltramente “Figliola tu sei sempre con me è ogni cosa mia è tua”. Che cosa poteva fare a quel punto padre Sazio se non approfittare dell’ignoranza della povera vedova, che alla scuola elementare ci andava solo per pulire e spolverare?! Acchiappò un foglio bianco e, con la faccia verso il cielo rivolta a firmamento, le disse: “Figla mia, statti buona, che ti faccio testamento.” E il testamento glielo fece per davvero, ma siccome ci voleva un testimone la pregò di tornare la settimana appresso, risendosela sotto il baffi perchè con quel foglio, padre Sazio, quella sera, ci avrebbe fatto il pollo arrosto. Funerale, chiancituta e vestino nero, passarono due settimane e si fece luglio, e con esso arrivo la festa della santuzza. La donna, che era nata a Palermo, aveva un debole per la santa, l’acchianata e tutto il resto. Sicchè, che regalo poteva fare a padre Sazio per ringraziarlo di quell’opera di bene che si chiamava testamento? “Ho trovato!”, disse, “Gli porto da Palermo un po’ di babbaluci che padre Sazio è licco e non è mangiate mai”. Detto fatto, Assunta tornò a Montepipi con le babbaluci per il prete e il ringrazio non fu poco. A sera fatta, che ogni fedele s’era andato a rompere le corna a casa propria, padre Sazio si cunzò la tavola ed il piatto prelibato. Quella sera pioveva ed un fulmine s’era portato via la luce. “Poco male”, disse lui, “m’addumo una candela e mi faccio ‘na sorsata, e se vuole u Signuruzzu, si comincia la sucata”, poichè non sono babbaluci se non si mangiano sucando. Ora, che ne poteva sapere padre Sazio, e nella vita sua si era mangiato pure i piedi del tavolino, che, giusto giusto, soffriva di una fortissima allergia alla bava delle lumache? Buone erano buone, ma, appena finì di mangiare, un colpo di tosse, uno scisone, gonfiò tutto in faccia e, per colpa di uno schock anafilattico, morì a panza china. L’indomani le campane suonavano a lutto: era morto il parrino del paese. Il sagrestano, mentre tra le lacrime faceva le pulizie, trovò un foglio con il testamento: padre Sazio, lasciava tutte cose ad Assunta, Maria Catena, Addolorata, Croce di cognome, detta mala jurnata, moglie del becchino. Morale: non v’ammazzate ad accumulare perchè nel tabuto ci entra poco e forse niente.

09 settembre 2020

" La Tragedia del Moby Prince "


Moby Prince

Era la sera del 10 aprile 1991 quando, alle 22:25, la Moby Prince entrò in collisione con la petroliera Agip Abruzzo ancorata davanti al Porto di Livorno. Nell’incidente persero la vita 140 delle 141 persone a bordo del traghetto. 

Agip Abruzzo

L’unico a salvarsi fu il meno esperto della vita di mare, il giovane mozzo Alessio Bertrand. 
In termini di perdita di vite umane, fu la più grande catastrofe della marina civile italiana in tempo di pace. 
Una tragedia che a 29 anni di distanza presenta ancora lati oscuri. 
A parlarne a Sputnik Italia è il signor 
Florio Pacini, che ai tempi della tragedia era direttore dell’Ufficio acquisti della Nav.Ar.Ma, la compagnia armatrice del traghetto. 

Florio Pacini

Quando la nave a rimorchio arrivò nel porto di Livorno, fu lo stesso Florio Pacini a fornire ai vigili del fuoco lo schema dei piani della nave e le indicazioni di accesso al traghetto, nonostante ciò ed il suo ruolo in compagnia, la sua testimonianza non venne mai presa in considerazione dalla magistratura. 
Nel 2016 il sig. Pacini è riuscito a presentare la sua versione dei fatti in tre audizioni davanti alla Commissione sulla strage del Senato della Repubblica; alla data attuale, tuttavia, anche questo atto non ha sortito alcun effetto significativo.  
— Signor Pacini, secondo la Sua versione dei fatti cos’è successo la notte del 10 aprile 1991 al traghetto Moby Prince? 
— Alle 22:14 la Moby Prince in uscita dal porto di Livorno fece rotta per 220/225° (come sempre per recarsi ad Olbia in Sardegna), quella sera sulla sua rotta (in zona divieto ancoraggio) vi era una petroliera della SNAM gruppo Agip ENI. 
Sul ponte comando della Moby cambiarono la rotta per 200/205° per passare a poppa della petroliera, lasciando sulla propria sinistra due mercantili carichi di armi ed esplosivi militarizzati da parte di un dipartimento statunitense: il “Department Of The Army Military Traffic Management Command Terminal Battalion Italy Apo New York”. 
La manovra avveniva in piena sicurezza poiché tra la poppa della petroliera e la prua dei mercantili vi era una distanza minima di oltre 1.000 metri. Sulla petroliera era scoppiato un incendio alle 22:15 e il personale stava cercando di spegnerlo con i propri mezzi (molti sono i testimoni dell’evento). L’incendio stava coprendo di fumo la rada, rendendo invisibile tutto quello che si trovava a sud-ovest. 
Dal fumo è sbucato uno dei due mercantili militarizzati e ha speronato il lato sinistro del traghetto Moby Prince, all’altezza del ponte lance/solarium (i danni sulla Moby Prince erano evidenti fin da subito). La nave investitrice obbligò il traghetto a virare tutto il timone a destra per ridurre gli effetti della collisione (come da regolamento internazionale); questa manovra portò il traghetto in rotta di collisione con la petroliera, che oltre dal fumo era stata resa invisibile da un blackout totale. 
Il ponte di comando della Moby Prince ordinò timone tutto a sinistra e macchine tutte indietro, per evitare o ridurre la gravità dell’imminente impatto. 
 — Qual è invece la versione ufficiale? — Le versioni ufficiali sono variate nel tempo: siamo passati da tutta colpa dell’equipaggio della Moby Prince disattento che guardava una partita di calcio, facendo uno slalom fra le navi in rada ed in mezzo alla nebbia (secondo questa versione principale responsabile della tragedia), alla totale assenza di nebbia ed un eroico equipaggio attento alla sicurezza ed alla incolumità dei passeggeri fino a sacrificare la propria vita. Vittima sulla Moby Prince : FLORIO PACINI Vittima sulla Moby Prince 
— Qual è il ricordo che più l’ha segnata e indotto alla sua indagine e ricostruzione? 
 — La Moby Prince era ancora fumante in rada ed il Ministro della Marina, Carlo Vizzini disse: “Appare chiaro che l’errore umano è alla base di questa tragedia”. 
Errore umano dell’equipaggio del traghetto che non poteva difendersi in quanto perirono tutti, tranne l’unico superstite il mozzo 
Alessio Bertrand. 
Questo ed altri depistamenti immediati alla tragedia mi spinsero a cercare la verità per difendere chi non poteva più difendersi e l’onorabilità di quei marittimi. Azioni di depistaggio — Secondo Lei perché questa azione di depistaggio? 
 — Per allontanare le persone dai fatti di quella notte. Come già detto, la Moby Prince si è trovata suo malgrado dentro dei traffici illeciti da coprire, perché coinvolgevano navi di una società statale e navi cariche di armi americane di ritorno dalla prima guerra del Golfo. 
 — Chi, secondo Lei, è più interessato a non far luce sulla tragedia della Moby Prince? 
 — Vista l’enorme montagna di soldi versati per coprire i fatti, praticamente tutti! Da questa vicenda in molti hanno guadagnato oltre ogni più rosea aspettativa. La cosa più strana è che alla fine non si sa chi ha pagato realmente tutti questi soldi. 
— Cosa La spinge con tanta determinazione a portare avanti la Sua “battaglia” nel voler presentare la Sua versione dei fatti? 
 — Tutti i miei amici morti nella tragedia, il rispetto per Loro e per la giustizia. Le mie conclusioni sono talmente evidenti e reali che vedere consulenti, senatori, tecnici, mass media, seppellire questa tragedia in un silenzio assordante mette una rabbia e una forza che spinge a non arrendersi. 
 — Da un punto di vista giudiziario 
il caso è stato chiuso? 
 — “Ni!” Dopo la relazione finale della Commissione sulla tragedia in Senato gli atti sono stati passati alle Procure di Roma e Livorno. 
Io ho dato la disponibilità per essere sentito dalla Dottoressa Carmazzi della Procura di Livorno la quale mi ha invitato a recarmi presso la caserma di Finanza di Livorno per essere sentito. 
Questo mi ha fatto comprendere che non si stava perseguendo la verità, ma che la si vuole ancora coprire, ancora.. dopo 29 anni. 
 — Perché afferma questo? 
 — Se la mia ricostruzione è esatta (e lo è!), la Finanza di Livorno ha almeno un agente coinvolto. 
Se avessero cercato la verità mi avrebbero fatto convocare dalla Polizia o dai Carabinieri e non da due Finanzieri e, per di più, nella caserma di Livorno. 
Ripresa del caso — Nel 2016 Lei è stato sentito da una particolare Commissione al Senato della Repubblica. 
Ci sono stati dei risultati in seguito alle Sue audizioni? 
 — Qualche passo in avanti è stato fatto, si poteva certamente fare di più. Gli elementi erano lì, evidenti, ma si è preferito il classico cerchio/bottismo. 
Del resto il presidente della Commissione 
Silvio Lai mi fece presente che le mie dichiarazioni disturbavano la Marina Militare e m’invitò a non fare nomi. 
Anche se quei nomi sono responsabili della morte di 140 persone. — Quali sono le sue aspettative su questo caso? 
 — Che si arrivi alla verità in un modo o nell’altro, che qualcuno mi affianchi e continui la lotta dopo che non ci sarò più. 
Alla fine, dopo la conferma della verità, vorrei che il presidente della Repubblica riconoscesse la medaglia d’oro al Valor Civile all’equipaggio della Moby Prince e revocasse l’onorificenza di Commendatore della Repubblica ad un cattivo servitore dello stato come Sergio Albanese, comandante della capitaneria di Livorno ai tempi della tragedia, secondo me, il primo responsabile della morte di 140 persone innocenti, tra cui una bambina di appena un anno. 

Biagia - Silvana ❤ La Storia di Pozzallo_3 Silvana La Pira_3

                         - Silvana La Pira -

anticamacina

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