27 marzo 2021

Quelle "varchi 'i sali" che arrivavano fino a Malta: quando ad Augusta c'erano le saline

 Le saline di Augusta risalgono al XVI secolo. Erano vaste aree in cui veniva estratto un tipo di sale ritenuto di ottima qualità ed indicato per la conservazione di pesce e carne 


Le antiche saline di Augusta


l sale si lega strettamente al lungo ed inesorabile processo umano di civilizzazione: quello impiegato in cucina. Usato anche per la conservazione dei cibi che corre in parallelo alla cottura dei cibi, il sale condisce e insieme preserva, svolgendo quel ruolo che sarà poi tipico della refrigerazione.

L’introduzione del sale in cucina ha portato ad una vera e propria rivoluzione cambiando abitudini e generando un nuovo stile di vita. Il semplice, l’umile sale comune, costituisce il tessuto della storia: è così indispensabile alla sopravvivenza che è stato perfino causa di guerre sanguinose.

Imperi sono stati fondati o sono crollati per causa sua. Basta la parola “salario” ad illustrare l’importanza del sale. I legionari romani ricevevano un salarium cioè un pagamento in sale. Più tardi, la parola prese il significato di pagamento in denaro per comprare sale.

Imperi sono stati fondati o sono crollati per causa sua. Basta la parola “salario” ad illustrare l’importanza del sale. I legionari romani ricevevano un salarium cioè un pagamento in sale. Più tardi, la parola prese il significato di pagamento in denaro per comprare sale.

Questa fondamentale scoperta e il suo impiego risale ad epoche assai lontane, dal momento che già Plinio il Vecchio nel suo libro Naturalis Historia effettua una cernita delle tipologie di sale da lui individuati, suggerendone gli utilizzi e citando, tra gli altri, quello Megarico, riconducibile a Megara Iblea, piccola colonia greca nelle vicinanze di Augusta, in provincia di Siracusa

Fino agli anni ’60 del Novecento fu il prodotto più tipico della città megarese. Al di là della necessaria fonte primaria, ovvero l’acqua del mare, l’aumento della richiesta del sale ha favorito la nascita delle saline in quei luoghi in cui era facile accedere al mercato del commercio o erano presenti attività che ne facevano ampio uso.

Per questo motivo, soprattutto nel medioevo, spesso le saline si trovavano in prossimità di aree portuali e di tonnare.

Le saline di Augusta sono un'area naturale protetta con normativa della Comunità Europea.

Alla fine degli anni '60 dell’Ottocento le saline vennero tagliate in due parti in seguito alla costruzione dei binari della ferrovia Catania-Siracusa, aperta al traffico il 19 gennaio 1871.

Un tempo molto attive nella raccolta del sale marino, rappresentarono una risorsa economica consistente fino a quando, in seguito alla costruzione del complesso petrolchimico, non vennero chiuse.

A causa della vicinanza con uno dei tre siti petrolchimici siracusani (non bonificati) le saline di Augusta sono state ritenute ad alto rischio ambientale e per questo, nonostante la protezione speciale riconosciuta dalla comunità europea (zona di interesse comunitario e zona a protezione speciale), il sito è stato inserito tra i nominativi dell'Ufficio Speciale per le Aree ad Elevato Rischio di Crisi Ambientale della Sicilia.

Le saline di Augusta risalgono, secondo alcune documentazioni, almeno al XVI secolo.

Sin da tempi antichissimi si hanno notizie dell’esistenza ad Augusta di vaste aree dove, in maniera quasi naturale e con la semplice azione del caldissimo sole estivo su delle quantità di acqua marina ristagnante, veniva estratto un tipo di sale ritenuto di ottima qualità ed indicato ad essere utilizzato per la conservazione di pesce e carne.

L’area delle saline si estendeva dall’attuale zona del Granatello fino a raggiungere la Penisola Magnisi, l’antica Thapsos greca; in quel periodo le saline erano di pertinenza di Megara Hyblaea, all’epoca l’unica città esistente nelle vicinanze.

Dopo la nascita di Augusta, dovuta alla costruzione del castello e al conseguente sviluppo urbano, le saline cominciarono ad essere coltivate a carattere industriale e a costituire una fonte di lavoro.

Le saline furono per Augusta una importante risorsa, svilupparono l'artigianato e attivarono il commercio del sale dando alla cittadinanza una risorsa economica. Alimentarono il mercato del sale sin dall'Ottocento esportandolo, tramite imbarcazioni a vela (varchi 'isalì), in molte regioni d'Italia, nell'isola di Malta e in Inghilterra.

Dopo l'Unità d’Italia le saline comunali, anche se furono smembrate per la costruzione della linea ferroviaria della nascente stazione di Augusta, continuarono ad essere abbastanza produttive grazie a tante persone, salinari o improvvisatesi tali per necessità, che con fatica svolgevano uno dei lavori più pesanti ed oltretutto retribuito con un modestissimo reddito.

Una caratteristica delle saline come simbolo visivo era il mulino a vento il cui compito era quello di pompare l'acqua di mare affinché il livello delle saline restasse costante
.
Il lavoro delle saline era tipicamente stagionale. Iniziava subito dopo la festa di San Giuseppe 
(19 marzo) e si protraeva finché durava la bella stagione, in genere fino ad agosto, per evitare i rischi dei primi temporali. Una giornata tipica dei salinari iniziava la mattina all'alba e proseguiva fino alle 11, evitando cosi il torrido caldo di mezzogiorno.

Si riprendeva a lavorare nel primo pomeriggio fino intorno alla 17. Il ciclo del processo salino per la raccolta del sale iniziava sfruttando l’alta marea dal vicino mare e si faceva affluire l’acqua attraverso delle apposite ‘bocche’ fino a giungere nei ‘pantani’ da dove, con l’apporto dei mulini a vento, passava nelle apposite "caselle".

Da queste, dopo aver raggiunto la temperatura di 30° e trasformatasi in ‘acqua fatta’, veniva trasferita nelle ‘salande’ dove evaporando l’acqua il sale affiorava dal fondo in sottili lastre. Quindi, dopo averlo raccolto in piccoli “munzeddi”, veniva trasportato a spalla dentro dei “cufini” per accumularlo in montagne squadrate rassomiglianti a delle bianche piramidi.

Una volta formate, queste montagne di sale erano coperte con le tipiche tegole locali per preservare il raccolto da eventuali piogge fuori stagione, in attesa del suo smaltimento. 

Solitamente nelle saline comunali qualcuna di queste bianche montagne era messa a disposizione della popolazione, che così poteva prelevare gratuitamente delle quantità di sale da utilizzare per le proprie necessità. La fase di raccolta del sale costituiva un momento delicato e faticoso.

Delicato, perché doveva essere effettuata evitando di alterarne la qualità portando con sé anche la parte fangosa presente al di sotto della crosta. Un momento faticoso perché tutto il lavoro, dalla fase della rottura della crosta superficiale al raggruppamento per l’essiccazione al sole, avveniva sotto i raggi diretti del sole, riflessi oltretutto dal bianco del sale.

A questo si aggiungeva una condizione di asperità dovuta all’inevitabile contatto diretto tra la pelle nuda ed il sale stesso. Non a caso vi è il detto siciliano “iancu jè u Sali, jè niuru cu lu travagghia” (bianco è il sale, è nero chi lo lavora).

Sul finire degli anni Cinquanta del Novecento, col progredire dell’industria del freddo, diminuì l’utilizzo del sale come prodotto per la conservazione delle carni, con le difficoltà di reperire manodopera disposta ad un così duro e faticoso lavoro e con dover produrre un prodotto alimentare in un ambiente non più puro a causa dell’elevato inquinamento del territorio, le saline di Augusta intrapresero lentamente il cammino del tracollo conclusosi negli anni Settanta, quando ufficialmente ne fu decretata la totale chiusura.

Dopo di allora, la maggior parte di quelle aree umide delle ex saline comunali sono state sfruttate per costruirvi numerosi e vari edifici privati, lasciandone intatte solo delle discrete porzioni.

Proprio queste aree risparmiate dall’urbanizzazione del territorio nel tempo sono diventate l’habitat naturale per la sosta, la riproduzione e la nidificazione di moltissime specie di uccelli migratori, diventati la principale attrattiva di fotografi naturalisti.

22 marzo 2021

I Battesimi ( sfarzosi ) di Sicilia: chi erano la " Cummari di coppula e lu Cumpari di San Giovanni "

 

             Il momento del battesimo (foto di Girolamo Barletta) 

 Numerose tradizioni della Sicilia antica sono precipitate nell'oblio. Nel novero vi entrano anche quelle relative ai battesimi dei neonati: un evento molto importante in cui le famiglie approfittavano per sfoggiare prosperità e lusso spesso simulacri di un'abbondanza in realtà inesistente, perché frutto dell'indebitamento.

Due figure molto importanti in occasione del battesimo erano la Cummari di coppula e il Cumpari di San Giovanni. 

 Vediamo di cosa si tratta.

 La Cummari di coppula era, ovviamente, una donna alla quale veniva affidato un compito delicatissimo: lavare il berrettino che il neonato indossava al momento del battesimo e restituirlo assieme ad uno nuovo e abbellito di ricami preziosi.

Condizione necessaria affinché una donna potesse diventare una Cummari di coppula era la verginità. Quindi, la comare era spesso una ragazza di giovane età o una suora di clausura.


L'acqua utilizzata per il lavaggio del berrettino imbevuto ancora di olio santo del battesimo che non poteva essere "toccata da piè profano", veniva versata in una siepe in modo tale che nessuno venisse a contatto con essa.

A seconda delle usanze dei diversi territori siciliani la famiglia del battezzato regalava alla Cummari di coppula: un anello, un fazzoletto, un paio di orecchini, una gallina, pasta o una veste.

Il Compare di San Giovanni, invece, era un uomo invitato dai genitori ad accompagnarli fino alla chiesa in cui il neonato riceveva il battesimo.

Il Compare di San Giovanni era il primo a prendere in braccio il battezzato e sedeva a banchetto con la famiglia del bambino. Il cibo offerto era vario: maccheroni al caciocavallo "ammonticchiati" sulla tavola, salsiccia, costolette di maiale o montone e vino in abbondanza.

Trascorsi quattro o cinque giorni dal battesimo, il Compare di San Giovanni tornava a far visita alla famiglia del neonato portando in dono confetti, galline, nastri colorati e maccheroni crudi. Se gli omaggi fossero stati miseri e carenti, la condotta poco rispettosa del compare sarebbe stata oggetto di "chiacchiere" e scherno per anni.

Per le famiglie l'evento del battesimo era molto importante, quindi erano disposte persino a indebitarsi seriamente per fare bella figura.

Così, per evitare che le famiglie continuassero ad andare in rovina a causa dei debiti accesi per l'acquisto di vesti ornate di pietre preziose per il battezzato, di doni per le levatrici o per le comari o di mortaretti da sparare fuori la chiesa, vennero promulgate delle leggi il cui testo era il seguente:.

«Vietasi ad ogni persona, huomo o donna, mandare allo batteggi più di due torchie o paramentare chiese, mettere baldacchini in esse, e sparare mascoli per quella occasione, et accompagnar i bambini di giorno con torchie accese alla Chiesa». 

Riguardo all'abbigliamento sfarzoso veniva vietato di «usare a figliande, e bambini, collaretti, sopra teste, lenze mocatori, conserti, faldili, tovaglie et altre cose, le quali siano lavorate con oro, o argenti, o seta di qualsivoglia colore: e solo si possono et usare gli fornimenti con guarnintoni semplici, con un laccetto o frangietta, che non sia d'oro né di argento, e le colticelle e i coltriccioni siano solamente di tela, e pur spuntate o rigamate di filo e non di sera, né d'oro, né d'argento:
 e la fascia sia solo di filo, o cottone».

Era illegale, inoltre, fare indossare al neonato perle, gioielli d'oro o cerchietti d'argento. La comare poteva portare in dono al massimo "sei palmi di tela d'Olanda". 

 Qualora tali disposizioni venissero trasgredite, il contravventore sarebbe andato incontro a una multa di duecento onze. Insomma, 
la vanità non ha età.

21 marzo 2021

Fidanzamento e matrimonio fine anni ’50 in una Sicilia ancora prettamente rurale


“Cu ha dinari assai sempri cunta e 

cu havi ‘a muggheri bedda sempri canta… 

(Chi ha tanti soldi conta sempre, 
chi ha una bella moglie canta sempre…) 
proverbio siciliano!


La cultura e le tradizioni passate sono certamente le basi che creano le attuali società. È bene non perderle, ma portarle avanti nel tempo se non nei fatti almeno nel ricordo. È proprio quello che mi sono proposto di fare con questo certosino lavoro “Matrimonio a Ragusa Ibla negli anni ’50”. 

 Una ricerca impegnativa che mi ha permesso di scoprire un mondo affascinante, fatto di tradizioni e curiosità di un periodo che non è poi molto lontano da noi e che ha visto come protagonisti anche i nostri genitori e nonni!

Attraverso interviste fatte ai genitori e agli anziani del quartiere degli Archi (Ragusa Ibla), sono riuscito a raccogliere sufficienti informazioni per iniziare il codesto lavoro e per sviluppare una raccolta ricca ed interessante sulle tradizioni. Ho cominciato ad analizzare il fidanzamento e il matrimonio combinato di una volta. Bisogna sapere, infatti, che l’unione tra un ragazzo ed una ragazza era spesso vincolato da motivazioni ben diverse dall’amore e che i genitori costringevano spesso i propri figli a fidanzarsi e a sposarsi per interessi economici o sociali. Le ragazze promesse in matrimonio non potevano assolutamente opporsi alla volontà familiare ed erano quindi costrette a sposare l’uomo non amato.

Normalmente il matrimonio combinato avveniva in questo modo: la madre dello sposo sceglieva la ragazza per il proprio figlio, chiamava “U Sinsali” (l’ambasciatore del quartiere) e lo inviava a casa della ragazza per fare al padre la richiesta della mano della figlia. Il padre, esaminata la proposta, dava la risposta e, dopo aver preso la decisione, la comunicava alla propria figlia. Da quel momento in poi, ella avrebbe dovuto mantenere atteggiamenti riservati in pubblico ed a casa. Inoltre, ai giovani promessi sposi era vietato vestire abiti succinti e uscire di casa da soli, ma dovevano essere sempre accompagnati da qualcuno. Secondo momento importantissimo era quella del fidanzamento ufficiale, che avveniva prima dell’unione matrimoniale. In questa occasione, chiamata tradizionalmente “a trasuta’”, cioè “l’entrata”, le famiglie dei due fidanzati si conoscevano e, con un ricevimento fatto a casa della sposa, rendevano “ufficiale” la relazione dei figli, non solo tra di loro, ma soprattutto all’intero paese.

Singolare è l’esempio della “carta ra doti”, che elencava la dote che le ragazze dovevano possedere al momento del matrimonio (lenzuola, coperte, tovaglie, strofinacci, mobili, terreni, ecc.). Spesso, durante questi incontri le famiglie litigavano e la figura della mamma dello sposo emergeva per la sua arroganza e per le sue pretese, distinguendosi dalla mamma della sposa, che sembrava più remissiva e più propensa ad assecondare la consuocera, sempre possessiva nei confronti del figlio maschio. Molto spesso si scatenavano litigi che portavano alla rottura del fidanzamento; in quel caso, si cercavano velocemente altri sostituti, perché la mentalità del tempo non vedeva di buon occhio gli uomini e le donne non sposati. Dopo il fidanzamento si passava agli accordi per il giorno del matrimonio: inviti ed invitati, festeggiamenti, pranzo. Singolare era la consegna degli inviti. I genitori degli sposi, generalmente i padri, andavano personalmente ad invitare i parenti e gli amici per ben tre volte! La prima per informare della data del giorno del matrimonio, la seconda per confermare la data e la terza per prendere la risposta dei partecipanti al matrimonio.

I festeggiamenti duravano tre giorni: il primo giorno si festeggiava a casa della sposa con amici e parenti, il secondo e il terzo a casa dello sposo, sempre con amici e parenti.

20 marzo 2021

' Munnu ha statu e munnu è' : saggezza siciliana allo stato puro

 


La tradizione siciliana è ricca di modi di dire ricchi di saggezza. 

Oggi ne approfondiamo uno che riassume benissimo una condizione nota a tutti.

 Proseguiamo il nostro viaggio alla scoperta della Sicilia e dei suoi proverbi. 

Soltanto la saggezza popolare, nel corso dei secoli, ha saputo sintetizzare la condizione dell’umanità in semplici frasi. Quelle frasi, i proverbi, ci accompagnano ancora oggi nella vita di tutti i giorni, fornendoci utili consigli e spunti di riflessione. Ci piace molto parlare dei proverbi siciliani, perché rappresentano una pagina della cultura della nostra isola davvero importante. 
Un tempo queste frasi erano citate molto spesso, mentre oggi si è persa l’abitudine a farvi ricorso. Recuperarle e riproporle è fondamentale, poiché si tratta di un modo per comprendere ciò che la Sicilia è diventata.
 
Il significato 

Il popolo siciliano ha saputo sintetizzare in modo eccellente l’immobilità della storia con la locuzione “Munnu ha statu e munnu è”. Il significato è abbastanza chiaro: “Mondo è stato e mondo è”, cioè, il mondo è sempre lo stesso, nel passato e nel presente, nel bene e nel male. La realtà non cambia, così come non cambia il destino della gente comune. Si tratta di una constatazione indubbiamente rassegnata, però anche molto profonda. Non bisogna interpretarla in chiave negativa, bensì come un input per rimboccarsi le maniche e darsi da fare.
 
Soprattutto in Sicilia, spesso si ha la convinzione che tutto rimanga identico e che il futuro sia un miraggio lontano. Sarà anche vero che Munnu ha statu e munnu è, ma nulla impedisce di darci da fare affinché questo mondo, ogni tanto, possa anche girare nel verso giusto! La prossima volta che vi troverete a fare una constatazione del genere, ricordatevi dell’antica saggezza popolare siciliana e delle perle che spesso è in grado di regalarci.

19 marzo 2021

Lo credevano morto, ma riuscì a tornare a Marettimo: a 96 anni zio Peppe è una "star"



Sull'Isola di Marettimo vive un uomo, Giuseppe Bevilacqua, 96 anni, per tutti "zio Peppe", che per la sua storia è diventato il protagonista dell'omonimo documentario realizzato da Wijs Media, gruppo di video makers provenienti dall'Olanda. 

 A incuriosire questi professionisti - ma in realtà chiunque giunga sulla piccola isola delle Egadi e scambi con lui, che è il più anziano lì, due parole - è il patrimonio storico che zio Peppe porta con sè e che si trova a condividere con chiunque voglia ascoltarlo. 

 Ex prigioniero di guerra, deportato nel '43 in Grecia affrontò diverse vicissitudini che lo condussero nei campi di concentramento di Mauthausen, in Russia e poi a Roma nei campi degli americani, mangiando bucce di patate e invocando sempre la protezione di San Giuseppe. 

 Le sue preghiere, in un giorno come tanti altri, dopo anni di sofferenze furono ascoltate e facendosi riconoscere da un altro siciliano che scendeva da un carro armato riuscì a rientrare prima a Palermo, passando per Trapani, e poi a ritornare, finalmente dopo cinque anni, nella sua Marettimo. 

Qui lo accolse la madre incredula nel rivederlo dopo un così lungo periodo di silenzio - mentre il padre era morto tenendo stretta una sua fotografia tra le mani - e piano piano, sconfiggendo anche la malaria, zio Peppe riuscì a ritornare ad una vita normale fatta di pesca e, soprattutto, di una ritrovata serenità. 

 Le riprese realizzate nell'aprile del 2019 da questo gruppo di video makers olandesi oggi sono diventate un documenatario - presentato qualche giorno fa a Marettimo - che ferma nel tempo, e nelle storia, una vita che potrebbe essere quella di chiunque ma che è speciale perchè rappresenta il trionfo sulla malvagità che negli anni della Seconda Guerra Mondiale fece registrare migliaia e migliaia di vittime. 

 Tutti più o meno abbiamo sentito un nonno o un lontano parente raccontare frammenti di quel periodo storico che ha segnato la storia dell'umanità ed è proprio per non dimenticare che uomini come zio Peppe, che con la sua voce tremula e sempre emozionata aggiunge un ulteriore valore al ricordo, 
vanno resi protagonisti di opere che tra decenni potranno ancora mantenere viva la memoria delle generazioni future.

16 marzo 2021

L'Obelisco di Piazza San Pietro

 

 
L’obelisco di Piazza San Pietro (detto anche obelisco Vaticano), senza alcun dubbio uno dei più famosi del Mondo, è molto più antico della piazza stessa. Si tratta dell’unico obelisco antico di Roma che non sia mai caduto ed è stato protagonista di molti aneddoti storici curiosi.

Fu trasportato ai tempi dell’imperatore Caligola da Heliopolis in Egitto per poi essere sistemato al centro del circo di Nerone, che prima si trovava esattamente dove ora sorge Piazza San Pietro. Nel suo viaggio dall’Africa, per evitare che si spezzasse, fu trasportato a Roma su una nave carica di lenticchie.


L’Obelisco Vaticano è uno dei tredici obelischi antichi della Città Eterna. Realizzato in granito rosso, svetta per un’altezza di 25,3 metri e con il basamento (composto da quattro leoni bronzei, opere di Prospero Antichi) e la croce raggiunge quasi i 40 metri. L’iscrizione recita: ECCE CRUX DOMINI – FVGITE – PARTES ADVERSAE – VICIT LEO DE TRIBV IVDA, ossia, in italiano: “Ecco la croce del Signore, fuggite parti avverse, trionfa il leone della tribù di Giuda”.

Come accennato è di origine egiziana, è privo di geroglifici e proviene, secondo Plinio, dalla città di Heliopolis; prima venne sistemato nel Forum Iulii di Alessandria d’Egitto e in seguito fu portato a Roma da Caligola nel 40, e collocato sulla spina del Circo di Nerone. Rimase in questa posizione anche dopo che il circo cadde in disuso, occupato da una necropoli. Si ritrovò poi a fianco dell’antica basilica di San Pietro, vicino alla Rotonda di Sant’Andrea.

Fu spostato e rialzato per volere di papa Sisto V nell’estate del 1586 sotto la direzione dell’architetto Domenico Fontana che per compiere l’opera impiegò quattro mesi di lavoro, 900 uomini, 75 cavalli e 40 argani: fu il primo degli obelischi ad essere rialzato in epoca moderna. Venne costruita un’imponente impalcatura, dalla quale venivano date indicazioni agli operai con trombe e tamburi: in tutta la piazza venne imposto il totale silenzio, per non disturbare i lavori, ed i trasgressori sarebbero stati puniti molto duramente. Nelle operazioni di innalzamento svoltesi il 10 settembre del 1586 vi fu il famoso grido di un certo Benedetto Bresca: “Acqua alle funi!”, che si accorse che le corde, surriscaldate, stavano pericolosamente per cedere sotto il gran peso dell’obelisco. L’uomo fu premiato e alla sua famiglia fu affidato il compito di fornire alla Santa Sede le palme per tutte le festività religiose.


Dal 10 settembre 1586 svetta nella piazza, come un enorme dito che punta in cielo, a ricordare che il destino di tutti risiede nella Casa del Signore. Nell’occasione dello spostamento il globo collocato sulla vetta venne trasferito ai Musei Capitolini, nella prima sala del Palazzo dei Conservatori, in un angolo vicino alla grande finestra. Secondo la leggenda nel globo da cui era sormontato erano contenute le ceneri di San Pietro o di Cesare; dal riferimento cesareo all’aquila imperiale romana deriva il termine aguglia, inizialmente usato solo per gli obelischi, e oggi trasformato in guglia.

15 marzo 2021

" A Mennula ri Santa Lucia "


         Il Santuario di Santa Lucia di Mendola ( Siracusa ) 

A pochi chilometri da Palazzolo Acreide ma nel territorio di Noto si trova un antico e piccolo villaggio noto per il 
santuario di Santa Lucia di Mendola, nell’omonima contrada.
 
 Il culto di Santa Lucia avrebbe origini legate alla toponomastica della zona nota come
 "A Mennula ri Santa Lucia", nome che deriverebbe dalla presenza di molti alberi di mandorlo o forse dal nome della cittadina chiamata anticamente Mende. 

 Una zona in cui la natura lascia il posto alla storia e alla riscoperta di un luogo e di un culto antico. Infatti, secondo la leggenda Santa Lucia, una vedova romana, visse in questi luoghi, a pochi passi dal bosco di Baulì, gli ultimi anni della sua vita, fuggita alle persecuzioni contro i cristiani da parte dei romani.

 Ma la Santa Lucia di questa zona non è la stessa Santa Lucia, patrona di Siracusa. La Lucia in questione visse nel periodo di Domiziano, riuscì a fuggire e a rifugiarsi in Sicilia, fino ad arrivare nella contrada di Mendola dove visse appunto in una grotta per nascondersi. 

 Per combattere la fame e la sete, si racconta, avvenne un miracolo: da una roccia sgorgò una sorgente di acqua. E proprio quell’acqua fu considerata negli anni successivi miracolosa. 

 Il nome di Lucia, che è legato alla parola luce, portò in questo luogo tanti pellegrini per curare gli occhi da malattie e cecità. Questa è una zona ricca di acqua, sicuramente si trattava di un luogo molto frequentato in periodo paleocristiano, lo dimostrano le opere di canalizzazione e le cisterne sotterranee, alcune di queste sotto la grotta di Santa Lucia, riutilizzate come sepolcreto. 

 La piccola chiesa rupestre è scavata in un costone di roccia ed è al centro di altri ambienti anch’essi scavati nella roccia. La chiesetta ha una pianta basilicale e probabilmente un tempo aveva un soffitto ligneo, come si evince dai fori di alloggiamento delle travi. Ad ovest si apre un presbiterio e quindi un’abside semicircolare come se fosse un altare. 

 A sinistra dell’abside si apre una piccola navata divisa da tre archi dall’invaso centrale e sul fondo di essa si nota un sistema per poter convogliare l’acqua che scorreva da una sorgente situata nelle immediate vicinanze. Per questo è possibile che questo posto fosse un battistero. 

 A destra dell’abside si apre un vano di forma irregolare con grandi nicchie destinate a contenere arredi sacri e quindi due ambienti collegati con sulle pareti tracce di pittura. Ma un’altra zona più nascosta si trova in questo luogo magico, ed è sicuramente la parte più interessante di questo sito: una piccola insenatura è l’inizio di una scala che conduce a quella che molto probabilmente era la parte originaria della chiesa. 

 Le scale scendono a circa 15 metri sottoterra dove si arriva ad un ipogeo circolare con una fonte d’acqua ancora intatta. Probabilmente questa era la chiesa dove i pellegrini scendevano per riti di purificazione o per visitare quei luoghi che furono i rifugi dei Santi Lucia e Geminiano ricercati dall’imperatore Diocleziano. 

 Da allora in poi il sito ha conosciuto vari riconoscimenti dai regnanti che si sono susseguiti in Sicilia. Dagli ipogei all’ultima basilica ogni colonizzazione ha voluto lasciare qui un segno della sua presenza

. La grotta è menzionata per la prima volta nel 1103 con cui Tancredi, conte di Siracusa, concede al monastero di S. Maria di Bagnara, la chiesa di Santa Lucia “de Montaneis”, quindi la si ritrova in un diploma di Ruggero che conferma la donazione e, ancora, in una bolla papale di Celestino III del 1192, fino alle decime ecclesiastiche per gli anni 1308-1310. 

 Si tratta quindi di un luogo sacro riconosciuto nei tempi.

 Attualmente lo stato degli affreschi è pessimo e si possono intravedere solo alcuni stralci di materia pittorica e qualche lettera. Dai pochi dati in possesso si possono vedere figure di santi. 

 La grotta di  in quanto dipendente dell’abbazia di Bagnara, appare d’importanza fonda Santa Lucia della Mendola, mentale per la ricristianizzazione e latinizzazione dell’altopiano sopra Siracusa.

 Essa potrebbe in realtà essere considerata solo un’appendice della ben più grande chiesa normanna del 1103. In questi anni sono stati fatti degli interventi per la manutenzione del sito e per la sua sicurezza, anche perché sono in tanti a visitarla. 

 Infatti, ancora oggi, il 16 settembre si celebra a S. Lucia di Mendola la festa in onore di Lucia nella quale la statua della Santa viene portata in processione per le strade principali della contrada.

 Come un tempo e come da tradizione, sono numerosissimi i pellegrini che arrivano per bere e bagnarsi gli occhi con l'acqua del pozzo di S. Lucia. L’acqua va bevuta di notte il giorno della festa e si spera così che guarisca tutti i "mali d’occhi". 

: La festa gaia e rumorosa fu proibita nel 1680 dalle autorità ecclesiastiche per gli eccessi cui dava luogo. Tanto che la festa passò con la denominazione di “S. Lucia la mala nottata”: il perché è facile intuire, dal momento che la festa si svolgeva di notte.
 
 Questo piccolo villaggio si trova nel territorio di Noto in contrada Santa Lucia di Mendola sulla provinciale 24, proseguendo da Noto per Palazzolo Acreide a circa 5 km da quest’ultima.

13 marzo 2021

La Chiesa di Santa Maria dell'Isola, la chiesa-gioiello di Tropea

 

Sorge sullo scoglio omonimo e, dall’alto della sua posizione, regala (anche) delle viste impareggiabili sul mare blu di Tropea


 Divenuta uno dei luoghi simbolo della Calabria, è una chiesa di origine medievale per cui però il tempo sembra non essere passato, data la sua bellezza che sembra resistere immutata al trascorrere degli anni e ai numerosi rimaneggiamenti subiti nel corso della sua storia. Già la sua posizione, sulla cima di uno scoglio a picco sul mare, varrebbe da sola una visita alla Chiesa di Santa Maria dell’Isola; eppure ti assicuriamo che qui oltre alle viste (e che viste!) c’è molto di più.


 
Cosa vedere nella Chiesa di Santa Maria dell’Isola

 Intitolata alla Madonna dell’Isola, la chiesa è una meta tanto religiosa quanto turistica, poiché non serve necessariamente essere credenti per aver voglia di salire fin quassù a godersi lo spettacolo. Nonostante il suo aspetto attuale sia decisamente diverso da quello che doveva avere in origine, a causa di terremoti che l’hanno parzialmente distrutta e di incursioni dei nemici che l’hanno danneggiata, la Chiesa di Santa Maria dell’Isola se ne sta sulla cima del suo scoglio da oltre mille anni, sempre a vegliare sulla cittadina sottostante di Tropea per cui costituisce un vero e proprio vanto sia architettonico che religioso.

 Per raggiungere la Chiesa di Santa Maria dell’Isola bisogna salire lungo una ripidissima scalinata scavata nel tufo, ma ti assicuriamo che all’arrivo sarai ripagato di ogni sforzo.
 Immersa nel verde tipico della vegetazione mediterranea, e con aiuole e panchine dove ristorarsi e godere del panorama, la Chiesa offre certamente esterni dalla bellezza irripetibile. Gli interni, tuttavia, non sono da meno: le tre navate in cui la chiesa è articolata rendono la struttura maestosa e sobria al tempo stesso, capace di ospitare elementi architettonici di pregio come le statue della Sacra Famiglia (da cui escono solo una volta l’anno, il 15 agosto, per essere portate in processione in mare). 
 Prima di andare via, ti consigliamo una sosta nel museo annesso che custodisce i segreti del Santuario e che ti consente di sapere di più su questo emozionante luogo di culto ‘vista mare’. 


  
 LA LEGGENDA DELLA CHIESA

Non ci sono dubbi circa il valore spirituale che ha la Chiesa di Santa Maria dell’Isola; parte del suo successo, tuttavia, pare sia da ricercare nella leggenda 
che la vede protagonista e che ogni abitante di Tropea potrebbe agevolmente raccontarti.

 La leggenda racconta dell’arrivo a Tropea via mare di una 
statua in legno della Madonna, 
accolta fastosamente dal popolo, dal vescovo, dal sindaco e dai capi del paese che, insieme, 
decisero di custodirla in una nicchia all’interno della grotta scavata nello scoglio della rupe. 
Dal momento che la statua era troppo grande, venne chiamato un falegname che le tagliasse le gambe per ovviare al problema. 
Al falegname fu impossibile proseguire con il lavoro poichè gli si paralizzarono le braccia, e il sindaco ed il vescovo morirono all’improvviso. 
Nei giorni seguenti la Madonna iniziò a graziare il suo paese con dei miracoli, 
ad esempio guarendo i malati che venivano condotti al suo cospetto. 

 Anche se la statua è andata perduta senza che ne sia rimasta alcuna traccia, il culto nato dalla leggenda per la Madonna è rimasto fortissimo e impresso nella memoria popolare al punto che la chiesa venne costruita proprio nel luogo in cui l’effige lignea era in origine conservata




TROPEA DI NOTTE



04 marzo 2021

Panificio VIVA

 

Michele Viva

Si fa presto a dire pane...ma a Pozzallo c'è chi fa pane da generazioni, da ben 50 anni, quando con la sola esperienza domestica/dilettantistica una mamma come tante (La zia Zudda),spinta dall'incombente necessita' di portare avanti una famiglia con ben 8 figli produce in casa pane casareccio. La madre trasmette la propria arte alla figlia Linda. Nel 1967 nasce quello che molti ricordano ancora
come "U funnu ro Scaru" dove Don Giuvanninu e la moglie Linda uniscono i loro sforzi per fare del buon pane,in detto panificio in un clima di estrema semplicità e informalità ,tutti vengono ad infornare le proprie scacce,i biscotti e tante altre cose fatte in casa. 
È un panificio popolare,amato,di tutti e Don Giuvanninu ne è l'indiscusso Re. 
Oggi Don Giuvanninu non c'è più e la moglie Linda e' ormai anziana. Ma i loro sforzi ,i loro sacrifici e soprattutto il loro sapere non è andato perduto. 
Infatti da 30 anni le redini del panificio sono passate nelle mani dei fratelli Michele e Antonio che con pazienza ,volontà,fantasia e passione non si stancano di produrre ogni giorno prodotti artigianali di grande qualità e genuinità ,di affinare sempre più la realizzazione del loro pane di squisiti biscotti a cui si affiancano focacce ,pizze,cornetti e tante altre prelibatezze. 
Nel panificio dei fratelli Michele e Antonio Viva la tradizione e il sapere si incontrano, e l'arte di fare il pane diventa
 "Patrimonio gastronomico" della città di Pozzallo.

                                          Vetrina Panificio

03 marzo 2021

Le Tavolate di San Giuseppe.

                           Foto: Melo81 – CC BY-SA 3.0.

Questa tradizione popolare siciliana si rinnova ogni anno in occasione della 
Festa di San Giuseppe.

 Il 19 marzo la festa del papà in Sicilia si celebra con grandi tavole imbandite.

 Ecco qual è il significato delle tavole di San Giuseppe e perché sono così importanti. 

Quando arriva il 19 marzo in Sicilia si rinnovano alcuni immancabili appuntamenti. La Festa di San Giuseppe è una delle più sentite ed apprezzate e, anno dopo anno, offre l’occasione per dare vita a importanti tradizioni popolari siciliane. Tra queste, una delle più celebri è quella delle Tavolate di San Giuseppe. Si tratta di tavole imbandite, con offerte, ex voto e cibarie, tutto dedicato al Santo. È un’unione tra fede e arte culinaria, particolarmente diffusa nei paesi dell’entroterra siciliano, in cui la devozione è molto sentita. Scopriamo insieme perché i Tavuli ‘ri’ San Giuseppi sono così importanti e cosa le rende uniche.

 Cosa sono le Tavole di San Giuseppe

 Le Tavolate di San Giuseppe vengono allestite in casa delle famiglie e, per tutta la giornata, rimangono aperte alle visite. Questa usanza ricorda la Sacra Famiglia e lo spirito della carità cristiana nei confronti dei poveri. Le celebrazioni in onore del Santo puntano molto sulla dimensione della comunità e trovano una grande espressione anche nella preparazione di cene da condividere con la collettività. Tornando alle Tavole, queste hanno un aspetto molto scenografico. Sono apparecchiate con preziosi merletti, lenzuolini e immagini di San Giuseppe. Assumono la forma di veri e propri altari, attraverso i quali esprimere la propria devozione. 

Tra i prodotti esposti, meritano sicuramente un posto speciale 
 i Pani di San Giuseppe.

 Ecco cosa sono.

 Il Pane di San Giuseppe è un pane votivo, realizzato seguendo un metodo ben preciso, la cui preparazione inizia giorni prima della Festa di San Giuseppe. In alcune zone della Sicilia prende il nome di “Pupi ‘ri’ San Giuseppi“. Molto importante è la sua forma, che ricorda gli oggetti del Santo falegname o simboli della carità cristiana. Questi pani sono molto belli e, una volta benedetti, vengono custoditi come vere e proprie “reliquie”. Per quanto riguarda l’allestimento delle Tavole di San Giuseppe, vi si trovano tante prelibatezze: primi piatti (pasta con sarde e finocchi), salsiccia, salumi e formaggi, broccoli, cardi e verdure fritte, dolci (cassate, pignolata, cannoli, cassatelle e bocconcini) e frutta. Sono arricchite con finocchi e lattughe fresche. I visitatori possono tranquillamente gustare ciò che viene messo a disposizione. Ora che sappiamo cosa sono le Tavolate, scopriamo quelle più famose nella nostra Isola.

 Le Tavole di San Giuseppe in Sicilia

 Le Tavolate di San Giuseppe, a seconda dell’area della Sicilia in cui prendono vista, assumono caratteristiche e nomi diversi. Nei paesi di Salemi, Borgetto e Terrasini, ad esempio, vengono chiamate mense di San Giuseppe. Qui gli altari i sono impreziositi con tovagliati di lino e si appende prezioso quadro con l’immagine di San Giuseppe. Le pietanze tradizionali sono davvero tantissime, come caponata, frittate, polpette di pesce, dolci. In genere i piatti sono un centinaio. Al centro della mensa c’è un tavolo decorato con porcellane, cristalli e argenti, che ospiterà tre bambini: questi rappresentano Gesù Giuseppe e Maria. 

 Viene anche messo a disposizione uno spazio per la raccolta della spesa: chi desidera può donare del cibo per le famiglie più povere. È tradizione preparare del pane di forma rotonda, con semi di sesamo e un taglio nella parte sovrastante con una croce. Si benedice e si dona a tutti coloro che visitano la mensa. In alcuni casi fuori dalla mensa c’è del pane con olive, da gustare. L’usanza vuole che a queste tavolate partecipino delle comparse, per rappresentare le figure della Sacra Famiglia. Al centro siedono San Giuseppe, Gesù Bambino e la Madonna accompagnati da San Gioacchino e Sant’Anna.

 

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                         - Silvana La Pira -

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