26 luglio 2020

Pomeriggi afosi d'estate


mia foto - Antonio Colombo


di
Franco Blandino

Pozzallo ha avuto figli illustri ma, chi ha vissuto gli anni 60/70, ricorderà personaggi caratteristici che hanno segnato in qualche modo la nostra gioventù.
Nei pomeriggi afosi d'estate, le nostre mamme ppi nun farini nesciri solitamente usavano dire:"....acucchiti a' mamma ca' ora passa filinoni".
Noi ragazzini, all'idea che potesse passare qualche mostro mitologico o, chissà quale personaggio, stavamo sdraiati per terra sopra a' cuttunina assaporando la frescura re' maruna (del pavimento) e solo quando "filinoni" era passato, le mamme ci liberavano dall'incantesimo.....
Le serate invece erano una riunione di quartiere.
Mia madre era solita mettere sul davanzale della finestra anfacci o' suli i semi ro' muluni sia che si trattasse ro' muluni ri ciauru, sia che si trattasse ro' muluni ri acqua.
Una volta asciugati erano il passatempo serale del vicinato. A' simenta ppa' siritina. E mentre noi ragazzini giocavamo e' quattru cantuneri (quattro angoli di strada), potevi notare qualche genitore ca' segghia ravanti, cenare sull'uscio di casa con l'immancabile bottiglietta ri vinu ra' Mazza (Marza). Chiacchiere, pettegolezzi e curiosità ci portavano a notte fonda fino ha quando ci si alzava con l'immancabile frase "....va be' cummari io mi va cuccu", perché solitamente si ci dava della commare alla vicina di casa.
Giorni indimenticabili che resteranno nella memoria.

25 luglio 2020

Vita nei quartieri


mia foto - Antonio Colombo

di
Franco Blandino

Un tempo a vita nei quartieri era scandita dalle abitudini e dalle persone. 
Ogni quartiere aveva la sua "putia", punto di riferimento degli abitanti. 
Piccoli locali che avevano l'abitazione attigua ma che, trovavi anche "u' latti ra' ucieddu". 
Autentiche fucine di incontri, pettegolezzi, confidenze e consigli. 
Era abitudine che il proprietario/a tenesse il famoso "libro nero" così chiamato, dal colore della copertina dove, si segnava la spesa giornaliera che poi, veniva saldata ogni "quinnicina" o, mensilmente. 
Sul bancone generalmente facevano bella mostra le"bocce" che pesciolini colorati o, "a" boccia co' zuccuru a' cuoccio" e in alcuni casi, a' boccia ca' crema bicolore, una sorta di Nutella di due colori. 
Le putie erano punto di riferimento anche per noi bambini che, recandoci solitamente dicevamo " vuogghiu.....puoi veni ma Matri". 
Con il passare degli anni e l'avvento dei supermercati queste istituzioni sono scomparse lasciando il posto al gelido luogo dove recarsi a fare la spesa. 
A' Sampaulara.....A' Maghistru.....Mantello....Cummari Jaffa....ed altre resteranno nei ricordi di chi ha vissuto quegli anni di spensieratezza e di beata gioventù.

24 luglio 2020

Pozzallo e' la movida del passato


di
Franco Blandino

mia foto - Antonio Colombo

Come tutti i piccoli paesi, Pozzallo non offriva molto in tema di svago o, divertimento.
La nostra movida era rappresentata ra' passiata o' cussu dopo la messa.
Era un'occasione per vedere, seppur a debita distanza, a' zita.
La ragazza dei nostri sogni.
Per le coppie "ufficialmente-ziti" invece, c'era il passeggio accompagnati da parenti.
Il gelato o, "u'piezzu ruru", era il culmine della serata che volgeva al termine.
A' ciappetta ha forma di elle, ri Vanninu Cicciarella e della 
moglie Jolanda,

Laboratorio Pasticceria Cicciarella
la sig.ra Jolanda e Giovanni Spadaro

 oppure quella ro' cafè ro' Spaccafunnari, chiamato così perché originario della vicina Ispica, erano i due bar che andavano per la maggiore per la loro posizione invidiabile, Piazza delle Rimembranze.
L'altro svago era rappresentato dal cinema.
Pozzallo ne aveva due.
C'era un terzo, u' cinema all'aperto che, veniva utilizzato in estate.
Aveva sedie di ferro e in fondo, un grande schermo bianco in muratura con ai lati i due bagni.
U' cinema Giardina, ubicato in centro Corso Vittorio Veneto, gestito dalla famiglia Caruso che, si avvaleva della collaborazione ri Nacaranu, uomo di fiducia della famiglia ed era colui che, all'ingresso, pizzicava u' bigliettu e durante la proiezione, aveva il compito di tenere decoro e silenzio in sala soprattutto, quando andava via la luce.
Personaggio indimenticabile, a' za Pippina re bamboloni, un caramellone di zucchero ed aromi. L'altro era situato in uno dei quartieri storici, a' Vanedda vicci ed era, u' cinema Diana.
Gestito dalla famiglia ri don Giuanninu Garofalo e dalla moglie.
Originario di Modica, don Giuanninu era un appaltatore con la passione del cinema.
Figura emblematica del cinema era don Turiddu Maccarranca e la moglie za' Lucia.
La caratteristica del cinema era rappresentata dalle prime file di sedie in ferro che, ogni qualvolta noi ragazzini, facevamo sentire all'arrivo sullo schermo ti Maciste oppure, ro' picciuottu nei film western. Entrambi i cinema avevano u' tettu ca si rapia e, nelle sere d'estate, lasciava intravedere il cielo stellato.
Quanti amori "ufficiali" e "clandestini" sono nati tra le poltrone di quei cinema che, rimangono un pezzo di storia di Pozzallo.

23 luglio 2020

" L'epopea del ristorante Al Sorcio "




Claudio De Caro: Rosina Neri e l'epopea del ristorante Al Sorcio

 Scicli - Come ne La Mossa del Cavallo di Andrea Camilleri, la nostra storia inizia con l’arrivo in Sicilia, intorno al 1870, di un impiegato del dazio che dall’Emilia Romagna fu spedito in Sicilia. Alfonso Neri sposò Minicchia, la signora Carmela, da cui nacquero tre figli, fra cui Rosina Neri. Correva la seconda metà degli anni Venti del Novecento e Rosina (classe 1890), appena 34enne aprì una pasticceria in via Vittorio Veneto 4, alla Stradanuova, un bar con forno a legna, dove i gelati venivano montati a mano nella tinozza, con ghiaccio e sale, facendo di se’ e del suo locale un buon nome a Scicli e nel circondario. 
La pasticceria restò in attività fino alla fine degli anni Settanta, quando Rosina lasciò il testimone alla figlia Giovannina Palazzolo, mentre il figlio Giovanni Palazzolo aveva aperto una propria pasticceria in via Marconi, ai piedi di piazza Italia. 
Rosina in estate trasferiva la propria attività a Donnalucata, dove i notabili trascorrevano la villeggiatura, nel bar di via Pirandello che oggi ha il nome di Bar Riviera. 
Il Caffè di Donna Rosina Neri era un punto di riferimento per baroni e cavalieri in cerca di un momento di relax e refrigerio. 


Qui la vicenda umana di questa donna forte e moderna si incrocia con quella del suo futuro genero, Valentino Bartolo De Caro. 
Battezzato col nome di Valentino, il secondo protagonista della nostra storia resta orfano di padre ad appena un mese di vita, tragedia che indusse la mamma a chiamarlo col nome del padre, Bartolo. Barbiere a otto anni, a 13 anni ereditò la barberia in seguito alla morte del suo mastro barbiere. 
A 18 anni Bartolo parte militare, per servire la Patria nella seconda guerra mondiale, a bordo del cacciatorpediniere Niccolò Zeno, nave bombardata e affondata. 
Bartolo rovinò in acqua, beccandosi la pleurite, ma riuscendo a mettersi in salvo.
L’8 settembre del 1943 era a Livorno quando la guerra finì, ma solo ufficialmente. 
Bartolo non si volle schierare né coi Repubblichini, né con gli Alleati, entrando a far parte di quella terza via detta degli “sbandati”. 
Arrivato a Migliarino, nel pisano, andò a fare il barbiere avventizio nell’artigiano del paese. 
Bartolo era segretamente fidanzato con Carmela, altra figlia di Rosina, da quando avevano 16 anni lui e 12 lei, un amore innocente e platonico. 
Ma le vicende della guerra lo portavano sempre più lontano da Scicli.


Già, perché i partigiani fecero saltare in aria un ponte e il parroco fascista del paese incolpò il barbiere di essere un collaterale. 
I due barbieri del paese furono arrestati e portati con un carro bestiame a Mauthausen. 
Qui Dio volle che servisse un barbiere per il campo di concentramento e Bartolo fu messo in una posizione di quasi tutela, pur patendo la fame. 
Quando gli americani lo liberarono pesava 42 chili. 
A piedi e con mezzi di fortuna, attraversò la Penisola, giungendo infine a Scicli. 
Era il 1946. Il suo pensiero era per la Carmela Palazzolo figlia di Rosina e da lei andò cercando lavoro, proponendosi come garzone. 
Passò l’estate e a donna Rosina arrivò all’orecchio la voce che Bartolo e sua figlia avessero una storia d’amore segreta. 
Bartolo prese il coraggio a due mani e si dichiarò alla futura suocera: “Voglio sposare vostra figlia”. Rosina era la vera matriarca della famiglia, ma formalmente il permesso al fidanzamento toccava a suo marito, che faceva il cernitore di grano. 
Questi sbottò: “A chi dovrei dare in sposa mia figlia? Al figlio di nessuno?”, riferendosi al fatto che Bartolo era rimasto orfano a un mese di vita. 
Rosina fu tranchant: “Vero, è il figlio di nessuno, ma a spirtizza è menza proprietà” (l’intelligenza è come avere mezzo capitale). 
I due si sposarono in quello stesso anno, aprendo il bar materno anche in inverno a Donnalucata, dove ogni casa aveva un pozzo di acqua sorgiva. 
C’erano 400 anime in inverno nella borgata e agli avventori del “bar della Neri” Bartolo offriva uova sode, carciofi, salsiccie, sarda fritta, acciuga fritta, e gli immancabili gelati. 
Bartolo non aveva studiato, ma era molto ben voluto dalla borghesia anche intellettuale del tempo. 
Il professore Giuseppe Papaleo lo prese sotto la sua ala protettiva e ormai adulto lo fece studiare. Bartolo imparò a memoria 16 canti della Divina Commedia, divorava gialli, amando i Beati Paoli di Luigi Natoli. 
A casa arrivò a collezionare duemila libri. Ma Bartolo ha tante intuizioni: comprende che la scommessa si vince sulla qualità, e così ai Penna, ai Papaleo, ai Bonelli offre gelati in cui il cioccolato Van Houten arrivava dall’Olanda, la nocciola Regina da Cuneo, tostando le nocciole nella raffinatrice, e poi la ricetta: il gelato si fa con due tuorli d’uova, un litro di latte intero di mucca modicana, con 4.2 di grassezza, 250 grammi zucchero, e 5 grammi di neutro, la polvere di semi di carrubo. Donnalucata diventava intanto meta delle famiglie Siringo di Siracusa, 
Caia di Catania, che qui compravano i primaticci più precoci d’Europa per portarli alla stazione e farli arrivare (dopo un giorno di viaggio!) a Catania. 
Questi siciliani facoltosi chiedevano di mangiare pesce, e Bartolo non era preparato. 
Chiese aiuto a donna Vastiana, la donna di famiglia degli Scrofani, che gli cedette i segreti della ricetta del pesce a ghiotta, sul carbone, e di altri piatti della borghesia. 
Intanto, a pranzo e a cena a Donnalucata arrivavano anche gli ingegneri americani 
della ABCD di Ragusa. 
Racconta Claudio De Caro, figlio di Bartolo: “Quella di papà non era una cucina, erano cotture”. 


 E qui entra il terzo protagonista del nostro racconto, la terza generazione, Claudio. 
C’era il magazzino per la lavorazione dell’ortofrutta della famiglia Gambuzza a Timperosse e Bartolo decise di acquistarlo per fare un grande ristorante, oggi conosciuto come l’Acquamarina. Come chiamarlo? Fu un Mormino residente a Roma a suggerire il nome: “A Sorcè!, tu devi mettere il tuo nome. Tutti ti conoscono come il Sorcio, disegna un sorcio sulla tabella”. 
E fu così che il soprannome diventò brand. 
Per l’acquisto servivano tre milioni di lire, ma Bartolo ne aveva la metà. 
Andò dal direttore della Banca, Giuseppe Scimone: “Cavaliere, voglio comprare il magazzino di don Antonino Gambuzza, ma ho la metà dei soldi che servono”. Scimone rispose: “Non hai bisogno di andare in banca, ecco qui un milione e mezzo, quando li avrai me li restituisci, senza interessi”. Bartolo era entrato nel cuore di tutti a Donnalucata, anche dei notabili che vedevano in lui l’imprenditore che si era fatto da se’. 
Dopo due anni Bartolo saldò il debito. Il 10 agosto 1963 il ristorante “Al Sorcio” di viale della Repubblica a Donnalucata aprì senza porte, perché il falegname ritardò la consegna. 
Fu un boom, arrivarono avventori da tutta la Sicilia, il ristorante faceva 250 coperti al giorno in estate. I piatti? Pollo allo spiedo, pasta al forno, lacerto glassato, alternativi al pesce quando c'era maltempo, “perché non lavoravamo col congelato”, racconta Claudio. 


 A 48 anni, dopo una vita di lavoro, eppur giovanissimo, Bartolo ha problemi di salute. 
Nel 1969 molla. Il figlio Claudio studiava medicina, e odiava questo lavoro, fatto di sacrifici, rinunce, soprattutto nei periodi in cui gli altri si divertivano. 
Bartolo crea una società con i suoi collaboratori di sempre e decide insieme a Giovannino Neri, del bar di via Marconi, di costruire l’albergo sopra il ristorante, di cui saranno proprietari il figlio Claudio, il figlio Daniele e lo stesso zio Giovannino. 
Nel 1991 il ristorante e l’albergo vengono venduti, con l’onere, per Claudio, di non potere fare attività di ristorazione per i successivi cinque anni.


“Aprii una tavola calda a Scicli, alla Bettola, in via Udienza, sotto palazzo Busacca” racconta Claudio. “Fummo invasi di lavoro, ma l’esperienza durò appena sei mesi perché non trovammo l’accordo con la proprietà”. 
Claudio intanto aveva fatto uno stage a “La Suvera”, uno Châteaux Relais cinque stelle della famiglia Piccolomini, vicino Siena, già dimora estiva di Papa Giulio II. ”Intanto mio fratello Daniele acquistò la rosticceria Kabir di corso Mazzini, e io entrai dopo due anni in società con lui”. 
Nel 1994 Pino Giurato, proprietario del Kabir di Donnalucata, chiede ai fratelli De Caro di diventare prestatori d'opera al Kabir donnalucatese. “Compro il locale e facciamo una tavola calda io e mia moglie Concetta. 
L’anno successivo lo ristrutturiamo e facciamo il ristorante Al Molo: nell’aprile 1996 Piero Guccione mi dedica un campo di grano”. 
Il ristorante resta nel centro storico di Donnalucata fino al 2011, quando si trasferisce in contrada Timperosse, dove resterà aperto fino al 26 dicembre 2018. 
Che cucina hai fatto? “La più semplice, una cucina di pesce, con due fasi. 
Fino ai primi anni Novanta andare al ristorante era uno status, noi cucinavamo solo pesce pregiato: saraghi e spigole selvatiche (mai pesce d’allevamento!), comprato la mattina e cucinato in giornata. 
I miei piatti più apprezzati sono stati le cozze gratinate, la salsa taratatà o moresca, gli spaghetti alla tarantina, in bianco, il risotto ai lumaconi di mare, e come secondo, la spatola in agrodolce. 
Quando aprimmo Il Molo, nel 96, fiutammo che i tempi erano cambiati, le persone non avevano bisogno di mostrare, il pesce ricco selvatico scarseggiava e i prezzi lievitavano. 
Per questi motivi la mia cucina si orientò verso la razza, il palombo, la spatola, gli sgombridi, il tonno. 
Per dolce, le ricette di nonna Rosina: bianco mangiare, gelo di limone, cannolo di ricotta. 
Mi sono permesso di alleggerire la versione di Rosina Neri nella tecnica di cottura del cannolo. 
La nonna aveva appreso i segreti del cannolo siciliano da un pasticcere di Acireale, negli anni Trenta del Novecento, una ricetta in realtà ottocentesca. 
Io eseguo la ricetta usando le canne della nonna, che sono porose e permettono una frittura omogenea dentro e fuori della cialda, mentre agli oli bifrazionati che producono acroleine, io preferisco lo strutto, che è sì un grasso saturo, ma avendo un punto fumo a 230 gradi (gli oli bifrazionati lo hanno a 170 gradi) mi permette di friggere a 165 gradi senza intervento chimico nocivo per la salute". Torniamo un attimo indietro con uno scatto. 
Per dire che papà Bartolo è andato via a 84 anni nel 2007, mamma Carmela ha 94 anni ed è stata indirettamente fonte di questo articolo. Bartolo volle tornare a Mauthausen da uomo libero, cercando e trovando il letto in cui fu prigioniero. 
Vi proponiamo la commovente immagine di lui nel campo di concentramento. 



Tra i clienti di Claudio, nel corso degli anni, lo storico Denis Mack Smith, Luca Zingaretti, Piero Guccione, Gesualdo Bufalino e Leonardo Sciascia. "Quando servii Sciascia a pranzo gli chiesi: “Maestro, a che punto è la linea della palma? -racconta Claudio-. Sciascia aveva occhi penetrantissimi, si illuminò, inchiodandomi: “Figghiu miu, simu iunti a Stoccolma”."

22 luglio 2020

Angela Iacobellis: la bambina dei miracoli, una storia di fede e di speranza.


Angela Iacobellis, 

chiamata l’Angelo del Vomero, rappresenta una storia di fede e di speranza;
scomparsa prematuramente a soli 12 anni, le si attribuiscono misteriose guarigioni e grazie.
La storia di Angela Iacobbelis, chiamata affettuosamente l’Angelo del Vomero è poco nota: è per certi versi triste e per altri, come vedremo, rappresenta una vera testimonianza di fede cristiana.
Una dolce bambina affetta da una grave forma di leucemia, scomparsa prematuramente il 27 marzo del 1961 a 12 anni che ha fatto della sua breve esistenza un esempio per gli altri, abbracciando la sua dolorosa croce e manifestando sin dalla tenera età, il suo amore per Cristo, leggendo il Vangelo e recitando il Santo Rosario quotidianamente.
Attorno alla sua tenera figura sono comparse molte storie di guarigioni improvvise, cui si attribuiscono i «miracoli».
Nata a Roma il 16 Ottobre del 1948 trascorse i primi anni nella Capitale per poi trasferirsi con i suoi genitori a Napoli nel 1955.
La vita di Angela trascorreva tranquilla come tutte le bambine della sua età, fra lo studio e i giochi infantili, prediligendo il disegno come mezzo d’espressione e coltivando le amicizie con i bambini del vicinato, anche se sin da piccola, manifestava uno stato di salute alquanto cagionevole, soffrendo di un flemmone alla clavicola destra che le procurava atroci spasmi costringendola a sottoporsi a continue cure.
Ma questo non la scoraggiava e anzi possedeva un dono prezioso e raro: una fede incrollabile, una vera devozione a Gesù Cristo cui recitava le sue preghiere e il Santo Rosario, crescendo nell’amore spirituale e nell’affetto incondizionato della sua famiglia.
Durante le vacanze amava visitare luoghi di culto, specialmente Assisi recandosi più volte presso la Basilica di San Francesco e Santa Chiara, i suoi santi prediletti.
Un giorno accadde che anche i semplici giochi con i suoi coetanei, l’affaticavano; diceva di sentirsi molto stanca e un discreto pallore stava prendendo il posto della sue belle guance rosee.
La madre preoccupata per la piccola, decise di portarla da un pediatra e con i continui controlli medici, le fu diagnosticata la malattia: la leucemia.
Inizialmente i suoi familiari tennero all’oscuro la madre, ma intuendo la gravità della situazione, decisero di parlarle apertamente poiché per la piccola non vi erano più possibilità di cure se non quella di affidarsi unicamente ad un miracolo.
La vita di Angela era in pericolo di morte.
Per la bambina, la scoperta della terribile malattia non fu un dramma anche se era consapevole del pericolo incombente e proprio ciò la spinse maggiormente a raccogliersi in preghiera, sperando in una guarigione miracolosa.
I genitori affranti dal dolore, portarono Angela in pellegrinaggio, prima a Lourdes e infine a San Giovanni Rotondo da Padre Pio.
In quest’ultimo viaggio, Angela conobbe da vicino il frate di Pietralcina e con lui trattenne un bellissimo scambio epistolare, in cui la piccola chiedeva la grazia per la sua guarigione, al fine di poter restare accanto ai suoi genitori e agli amici di sempre.
In queste intense lettere ben documentate, si può percepire il grande affetto che Padre Pio provava per Angela a cui riservava il più grande dei conforti e la rammentava nelle sue preghiere.
Solo un miracolo poteva salvarla.
Trascorse poco tempo dal pellegrinaggio e la malattia di Angela degenerò fino ad aggravarsi, finché arrivò il giorno della sua dolorosissima morte.
Verso le 10.00 del Lunedì Santo del 27 marzo del 1961, Angela (è già il nome era segno della sua missione) volò in cielo per congiungersi nuovamente con Cristo.
Il suo destino era segnato: in seguito alla morte di Angela, Padre Pio rivelò ai genitori che non poteva opporsi alla volontà del Signore e che aveva presagito della morte della piccola, poiché sarebbe divenuta Serva di Dio.
Tutto doveva compiersi.
 I miracoli dell’Angelo del Vomero Le testimonianze raccolte a seguito della sua morte, raccontano di aver ricevuto grazie e miracoli pregando sul sepolcro della bambina; infatti la sua salma è stata traslata nel 1997 dal Cimitero di Napoli alla Chiesa di San Giovanni Battista dei Fiorentini, presso piazza degli Artisti al Vomero.
La fama miracolosa di Angela in qualità di Serva di Dio, si sparse in tutta Italia e molti fedeli giunti da Nord e Sud si recarono presso la sua tomba, pregandola per intercedere a grazie e guarigioni da lunghe malattie.
Il metodo prediletto per entrare in contatto con la piccola fu lo «scambio epistolare» uno scambio intimo, riservato come lo ebbe lei con Padre Pio.
Tante furono le lettere lasciate alla sua tomba in cui si chiedevano grazie amorose e di guarigioni, che la sua famiglia le raccolse con devozione.
 l caso divenne di portata pubblica e l’11 giugno del 1991 la Santa Sede concesse il «nulla osta» per l’apertura del processo diocesano. In prossimità della Beatificazione di Angela e il 21 novembre del 1997 la salma fu traslata nella Chiesa di San Giovanni Battista dei Fiorentini, dove riposa tutt’ora. Testimonianze di persone che conoscevano direttamente Angela, raccontano che al momento della traslazione, il corpo della piccola fu trovato intatto e tumulato senza esser stato sfigurato; altri asseriscono che al momento della morte non avesse più la sua bella treccia, ma che quando è stata traslata, la treccia era lì e ben fatta.
Numerose testimonianze possono giurare l’intervento prodigioso di Angela, documentate dalle intese e commoventi lettere che lasciano ai piedi del suo sepolcro e raccolte in custodia, dalla sua famiglia. Sul web, per ricordare e divulgare la storia di Angela e la sua profonda fede cristiana, c’è perfino un sito che raccoglie le testimonianze provenienti da ogni parte del mondo.

20 luglio 2020

Anche il Sud ha la sua piccola Lourdes



Anche il Sud ha la sua piccola Lourdes. 
Una fonte dove sgorga un’acqua ritenuta miracolosa e in grado di guarire tutti i mali. 
Questa sorgente si trova a Palermo, nella chiesa di San Giuseppe dei Teatini ai Quattro Canti. 
Questa fonte è legata ad un’immagine di una Madonna, la Vergine detta della Provvidenza. 
La tradizione parte nel 1609, quando Padre Salvatore Ferrari, un sacerdote teatino, fondò la congregazione dei Servi o Schiavi di Maria detta della Sciabica, la cui sede fu istituita, in un primo tempo, in un oratorio del chiostro del Convento dei Teatini. 
Questa congregazione, inizialmente, non aveva alcuna immagine della Madonna, per cui ci si rivolse al frate napoletano Vincenzo Scarpato che possedeva un quadro raffigurante la Madonna dell’Arco. Si narra che Scarpato provò a farla riprodurre da molti pittori madonnari palermitani, ma nessuno riusciva a farla come l’originale. 
Così, un giorno, il frate incontrò un mendicante che gli diede un involucro contenente qualcosa, e glielo porse con queste parole: “Tieni fratello Vincenzo, questo quadro custodiscilo con rispetto e venerazione. 
Farà tante grazie e molti verranno a fargli visita anche da lontano“. 
In quell’involucro c’era il quadro con l’esatta riproduzione dell’originale, ma quel mendicante che glielo aveva donato sparì subito. 
Così, capì che fu San Giuseppe in persona a consegnargli questo dono, e decise di collocare il quadro nell’altare del piccolo oratorio. 
Successivamente, poiché aumentò il numero degli iscritti, riuscì ad ottenere una cripta della chiesa per riunirsi. 
 Ma dopo la morte di Fra’ Vincenzo, il padre preposito ottenne licenza di esporre il quadro solennemente tutti i mercoledì dell’anno e per la festa della Madonna della Provvidenza. 
Qualche anno dopo, fu rinvenuta sotto l’altare della Madonna una fonte d’acqua che venne benedetta e subito dopo considerata miracolosa. 
Nel 1685 il Senato palermitano eleggeva la Madonna della Provvidenza a patrona della città. 
Per i palermitani, questa chiesa è sempre stata la meta più ambita quando erano in cerca di grazie, e hanno sempre ricorso (e tutt’ora lo fanno) a quest’acqua per ottenere guarigione fisica e spirituale, attingendola da alcune fontane della chiesa sottostante o da una fontanella a lato in un cortiletto a lato della chiesa superiore. 
Nel corso dei secoli sono stati testimoniati molti miracoli ottenuti mediante l’utilizzo di quest’acqua. Ora, la solennità della festa si è purtroppo un po’ persa, ma sono molti i palermitani che accorrono in questo maestoso tempio per ottenere grazie dalla Vergine e attingere a quell’acqua santa, cronologicamente più antica della famosa acqua di Lourdes.


06 luglio 2020

Quando il cono gelato veniva dal mare


 "Pesci e inciurie" di Daniela Verduci

Quando il cono gelato veniva dal mare: così Colapesce diventò un vip di fama mondiale 
La leggenda di Colapesce si mischia ai ricordi di quando in spiaggia, in Sicilia, una barchetta portava il gelato direttamente dal mare e lo potevi gustare in acqua Gianluca Tantillo autore 2 luglio 2020 
Sono Colapesce!” gridavo da bambino quando mi lanciavo contro le onde di un insolito mare mosso di luglio. “Si chiù cretino di una borraccia ri fanteria!” mi diceva Totò il bagnino quando mi veniva a recuperare mentre sputacchiavo “annego annego”. 
Poi, mentre avevo ancora le lacrime agli occhi, arrivava una splendida barca-gelateria (Cicciuzzo si chiamava) che con un inconfondibile clacson melodico annunciava che era il momento del gelatino e tutti si tuffano in acqua come in India per il bagno di purificazione nelle acque del Gange. 
Purtroppo, però, al posto del rito di pace, cominciava una vera propria scannata di massa: mogli che incoppolavano il cono in testa al marito perché aveva sbagliato il gusto, coppette semiaffondate che dondolavano come relitti distrutti nelle guerre puniche, nonni con aterosclerosi che si ritrovano in macchina con famiglie mai viste prima e cristiani che santiavano perché non c’era giorno senza che qualcuno non perdesse una fede o una catena d’oro 24 carati con la testa di Gesù (nei casi più sobri) come ciondolo. 
 Come tutti i paradossi della vita: tanta commedia, quanta tragedia. 
Quando tutto questo finiva e Totò il bagnino mi portava il cono pistacchio, uscendo imperioso l’acqua come la statua della libertà con la fiaccola in mano, ma molto più peloso e senza corona, ripartivo come nulla fosse contro le onde al grido di “Colapesce, Colapesce!” Forse la colpa è delle nonne che -e mi piace pensare che al nord, quando un bambino s’avventura in montagna, succede la stessa con Pollicino - per farci uscire dall’acqua gridavano: “Esci dall’acqua, hai tutte le mani arrappate! (da noi le dita non raggrinziscono ma s’arrappano) 
Ti finisce come Colapesce!” Ecco, 
Colapesce era un giovane di Messina che in realtà si chiamava Nicola. 
Tutti però lo chiamavano “Cola”, forse per abbreviare, forse perché era lento di stomaco e quando nuotava faceva troppe bollicine (ma questa è solo una mia teoria poco attestata.) 
Cola, come tanti siciliani, amava il mare come la propria famiglia e si narra che stava così tanto tempo in acqua che sua madre si disperava perché non voleva più tornare sula terra ferma. 
Per la verità, sempre da siciliano, bisogna pur considerare che una delle raccomandazioni più frequenti in questi casi è: «appena esci dall’acqua scippi legnate e quando torniamo a casa tuo padre ti da il resto!». 
Ora, che era cretino Cola che usciva dall’acqua sapendo che gli avrebbero fatto la festa? 
Nuota di qua, nuota di là, Cola stava tutto il giorno ad esplorare fondali e cercare pesci verso il quale sentiva un feeling tutto particolare. 
Era così affezionato ai pesci che al posto di usare il proverbio “meglio un cane amico, che un amico cane”, visto che era pure un poco ignorante perché scuole dentro l’acqua non ce n’erano, diceva: “meglio un pesce amico, che un pescecane”. 
Scuola a parte, anche se era più ignorante della calia, conosceva i nomi di tutti i pesci a memoria; cosa che non è facile in Sicilia, visto che ogni pesce ha un nome tutto suo e diverso dal resto dell’Italia. Volete la prova? Il cefalo si chiama “muletto”, la mormora si chiama “aiola”, l’aguglia è la “augghia”, il “grongo” diventa “runcu”, ma il più bello di tutti è la salpa che si trasforma in “manciaracina” che non c’entra in ogni caso niente perché in siciliano vuol dire mangia uva e questo invece vuole solo il pane. 
Ora che lo sapete, se venite a pescare in Sicilia, non usate l’uva credendo di catturarlo perché richiedono il TSO e vi vengono a prendere con la camicia di forza direttamente posto mare. Comunque, un giorno che la madre di Cola non ce la fece più, perché è vero che ci vuole il vento in chiesa ma fino a un certo punto, gli cominciò a buttare “astime” (maledizioni) affinché si trasformasse in un pesce. 
Magari Nettuno ascoltò le sue preghiere, magari la madre di Cola era parente di mago Zurlì, fatto sta che gli spuntarono le squame e le membrane in mezzo alle dita come i pesci. 
Sua madre di fronte all’atroce sortilegio si disperò e svenne, Cola, invece, che l’acqua lo bagnava e il vento lo asciugava, se ne fotté altamente e continuò a farsi il bagno. 
Col passare degli anni “Colapesce”, così ormai lo chiamavano tutti, divenne un vero e proprio vip. Era così conosciuto che la sua storia arrivò alle orecchie di Federico II, che quando sentiva storie di magia e stranezze varie s’arrapava come Alberto Angela di fronte alla Cappella Sistina. 
Detto fatto, perché Federico sempre imperatore era, gli presero Colapesce e glielo portarono d’avanti. «Se sei pesce, come dicono tutti - disse Federico - recupera questa coppa che ti lancio in mare». 
«E che m**** ci vuole! - pensò Colapesce - 
Questo mica lo sa che da una vita tiro a campare trovando le catene d’oro con la testa di Gesù per ciondolo e poi me le rivendo ai compro oro…», si tuffò e in men che non si dica riemerse con la coppa in mano. 
Il re, credendo ai propri occhi, gettò la propria corona in un punto ancora più buio e profondo, ma per Colapesce che era abituato a cercare pezzi di cinque, due e un centesimo, fu un gioco da ragazzi. Quello che però nessuno poteva mettere in conto è che, scendendo molto ma molto in profondità, Cola s’accorse che la Sicilia poggiava su tre colonne: due in buono stato, una che ci mancava poco e crollava a pezzi. 
Per Federico II in fin dei conti, se non lo raccontava a lui a chi doveva raccontare? 
Federico, apprendendo lo stato delle cose, si girò infuriato verso il suo vice e disse: 
“Ma è mai possibile che ogni volta che c’è una gara d’appalto deve andare a finire sempre in questo modo? Pure sotto il mare adesso?» 
«A proposito di appalti», rispose il consigliere «ci sarebbe quella cosa del ponte che parte da Messina…» «Ma quale ponte e ponte!», iniziò a fare Federico, 
Appena torniamo a Palazzo dei Normanni li metto a tutti in ginocchio sopra i ceci così si levano il vizio.” Colapesce, che di tutti questi discorsi non gliene poteva fregare di meno, capì che se aspettava i tempi burocratici sarebbero finite tutte cose a cachì. 
Si rimboccò le maniche, prese un bel respiro e scese in fondo in fondo a sostenere la colonna mala combinata. 
Secondo la leggenda Cola è ancora là sotto a reggere la Sicilia sulle sue spalle. 
Da quella volta mi tolsi il vizio di non uscire dall’acqua quando mi chiamavano perché manco a me piacciono tanto i tempi della burocrazia.

(779 LETTURE 221 CONDIVISIONI)  "Pesci e inciurie" di Daniela Verduci “Colapesce! 

03 luglio 2020

Avola dall'alto è irresistibile



Dalla mandorla ai suoi canyon mette tutti d'accordo: 
Avola dall'alto è irresistibile 
Avola, in provincia di Siracusa, è la protagonista di questo video pubblicato sul canale Facebook di Visit Sicily: 
due minuti di cultura e buon cibo che lasciano senza fiato
È uno dei luoghi più incantevoli della Sicilia, culla di tradizioni antiche, cultura, natura e buon cibo. La cittadina di Avola, in provincia di Siracusa, affacciata sul golfo di Noto è un centro marinaro che fa del turismo e delle perle enogastronomiche i suoi punti di forza. 
Avola, città della mandorla, è la protagonista di questo video pubblicato sul canale Facebook di Visit Sicily, il profilo turistico della Regione Siciliana, in collaborazione con il Comune di Avola e la Pro Loco di Avola. 

 Le immagini sono a cura di 
Daniele Li Gioi e Giovanni Guastella.

Biagia - Silvana ❤ La Storia di Pozzallo_3 Silvana La Pira_3

                         - Silvana La Pira -

anticamacina

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