30 aprile 2021

Identificati i geni chiave per la "riparazione" del midollo spinale


Si trovano nel pesce-zebra, uno dei modelli animali più studiati nei laboratori di genetica

Sono stati identificati i geni chiave per la rigenerazione del midollo spinale: sono stati trovati nel pesce-zebra, uno dei modelli animali più studiati nei laboratori di genetica, grazie a uno screening rapido fatto con la "Crispr/Cas9", la tecnica che "taglia e incolla" il Dna. 
La scoperta, pubblicata sulla rivista Plos Genetics dai ricercatori dell'Università di Edimburgo, chiarirà le ragioni per cui i mammiferi non riescono a riparare le lesioni spinali.


Lo stesso metodo di screening usato in vivo sui pesci potrà essere adattato per studiare anche geni coinvolti in altre funzioni biologiche.

La tecnica prevede l'utilizzo di piccole molecole guida di Rna (chiamate sCrRNA) che direzionano le forbici molecolari della Crispr verso specifici geni bersaglio da distruggere, in modo da poterne svelare la funzione nell'animale vivo. 
I ricercatori guidati da Marcus Keatinge e Themistoklis Tsarouchas hanno sperimentato il metodo sui piccoli del pesce-zebra per capire quali geni entrano in azione per controllare l'infiammazione intorno alla lesione spinale: sarebbe infatti questo meccanismo, mediato dalle cellule immunitarie chiamate macrofagi, a promuovere la riparazione del danno.

Prima dello screening vero e proprio, i ricercatori hanno preselezionato oltre 350 sCrRNA diretti contro geni già noti per il loro coinvolgimento nella rigenerazione midollare. 
La loro introduzione nei pesci-zebra ha permesso di identificare dieci geni che, una volta distrutti, hanno compromesso la riparazione delle lesioni.


Altri analisi hanno poi ristretto la lista a quattro geni chiave: uno in particolare, chiamato tgfb1, sembra giocare un ruolo cruciale nel controllo dell'infiammazione durante il processo 
di guarigione.

29 aprile 2021

Nano-protesi nervose per le lesioni spinali: lo studio italiano


Nano-protesi nervoe per le lesioni spinali. 
Una speranza per le persone che vivono su una sedia a rotelle. 
E' il frutto di uno studio italiano condotto dal Center for Nanomedicine and Tissue Engineering dell’IRCCS Casa Sollievo della Sofferenza 
di San Giovanni Rotondo, insieme all’ASST Grande Ospedale Metropolitano Niguarda 
di Milano, l’Università di Milano Bicocca e le Associazioni No profit per la ricerca e la cura delle malattie degenerative Revert Onlus. 
La ricerca ha unito la scienza innovativa dei nanomateriali biomimetici e la medicina neurorigenerativa basata sulle cellule staminali cerebrali umane.


Come si diceva, la ricerca ha fuso due grandi branche: 
la scienza innovativa dei nanomateriali biologici e la medicina neuro-rigenerativa basata sulle cellule staminali cerebrali umane. 
Partendo da questi due componenti basilari è stato letteralmente sintetizzato in laboratorio nuovo tessuto nervoso umano le cui caratteristiche sono state pre-determinate dai ricercatori proprio grazie alla possibilità di progettare al computer e poi sintetizzare in laboratorio i nanomateriali biologici. 
Sintetizzando tali materiali come gel e dotandoli delle proprietà meccaniche e biomimetiche necessarie a supportare e direzionare lo sviluppo delle staminali cerebrali, è stato creato un tessuto nervoso tridimensionale e composto da neuroni umani maturi e relative cellule di supporto (glia) funzionalmente attive. 
Questi costrutti rappresentano vere e proprie “protesi nervose”, le quali sono state quindi testate in animali con lesioni al midollo spinale.

I risultati sono stati eccellenti poiché, non solo si è ottenuto un miglioramento dell’attecchimento del trapianto rispetto alle tecniche precedenti, ma un oggettiva rigenerazione del tessuto midollare e recupero delle funzioni motorie. 
Va sottolineato come i materiali disegnati da Fabrizio Gelain siano biocompatibili, sintetici e composti al 99% da acqua e quindi utilizzabili in ambito clinico. 
Poiché le cellule utilizzate in questi studi sono le stesse staminali cerebrali di grado clinico in uso sui pazienti delle sperimentazioni in pazienti SLA e sclerosi multipla dal prof. Angelo Vescovi, l’applicabilità sul paziente è molto vicina. 
Lo studio, infatti, è ramo essenziale del progetto congiunto IRCCS Casa Sollievo e Revert Onlus per una sperimentazione clinica su pazienti mielolesi programmata entro i prossimi 2-3 anni.

La possibilità di una progettazione “custom” dei biomateriali nei confronti della patologia di interesse, in questo caso delle lesioni midollari, potrebbe ispirare altre terapie promettenti per la medicina rigenerativa anche nell’ambito della ricostruzione di pelle, cartilagine e tessuto cardiaco infartuato.

La ricerca - I peptidi auto-assemblanti (SAP) sono da tempo il fiore all’occhiello della nanomedicina internazionale applicata alla ricostruzione dei tessuti biologici grazie alle loro uniche qualità come biocompatibilità, purezza e versatilità. 
Lo studio dimostra, per la prima volta, che con tali materiali interamente sintetici e progettati a livello molecolare in laboratorio, è possibile ottenere strutture cellulari nervose complesse. 
Le stesse sono dotate di attività elettrica e ottenute da cellule staminali neurali umane. 
Ciò consente di avere un modello di network di cellule nervose in laboratorio su cui testare futuri farmaci, minimizzando così la sperimentazione animale. 
E’ stato così costituito un primo “patch” nervoso (neuroprotesi) potenzialmente utilizzabile in clinica in futuro, utilizzando solo componenti già approvati in tal senso (es. cellule staminali neurali umane, materiali peptidici sintetici), evitando ad esempio ogni derivato animale. 
La neuroprotesi, fatta maturare in laboratorio e successivamente trapiantata in lesioni al midollo spinale, incrementa la rigenerazione nervosa. 
Tutto ciò dimostra come, grazie alla tecnologia dei peptidi autoassemblanti, è possibile customizzare un biomateriale per la specifica applicazione. 
Colture cellulari 3D ed ingegneria dei tessuti - 

Colture cellulari 3D ed ingegneria dei tessuti -
Le colture cellulari 3D si prefiggono, tra le altre cose, di poter realizzare in laboratorio modelli di tessuto utili a predire l’effetto che avrebbero farmaci o materiali una volta utilizzati nell’organismo. Affinare tali modelli consente di diminuire significativamente la sperimentazione animale e di migliorare la nostra comprensione di meccanismi legati alla biologia dello sviluppo ed a quella cellulare in generale. Al tempo stesso lo scopo dell’ingegneria dei tessuti è di ripristinare le funzionalità perse di un organo o tessuto a seguito di trauma o patologia. Il denominatore comune alle strategie adottate nell’ingegneria dei tessuti è l’impiego di biomateriali, eventualmente “caricati” con cellule, che siano ben tollerati dal paziente e che siano in grado di fornire, una volta impiantati, un microambiente favorevole alla rigenerazione del tessuto esistente prima della lesione. Tale ricerca apporta pertanto un contributo significativo in entrambi gli ambiti.

I prossimi sviluppi - La missione prioritaria del CNTE è sempre stata quella della ricostruzione delle lesioni croniche e sub-acute al midollo spinale: rispetto al precedente lavoro in quest’ambito, pubblicato anni fa, ora si hanno due preziosissimi vantaggi: poter utilizzare bioprotesi interamente composte da peptidi “custom”, cioè progettate specificatamente per la rigenerazione del midollo spinale; avere sondato le nuove potenzialità offerte dal trapianto di cellule staminali cerebrali umane pre-differenziate. Questi miglioramenti devono ora essere combinati, in un approccio unico al mondo, per finalizzare la ricerca preclinica. In caso di esito positivo si potrà avviare la sperimentazione clinica in pazienti mielolesi. Vista la trasversalità della tecnologia di questi biomateriali innovativi, è oramai ben avviata la formazione di un network di ricerca di eccellenza con altri gruppi di ricerca con lo scopo di sviluppare nuove neuroprotesi per la rigenerazione di altre lesioni nervose (es. trauma cranico), di altri tessuti (es. pelle, cuore) e per il miglioramento di terapie cellulari già utilizzate in clinica (es. trapianto isole pancreatiche).

I dati - In Italia, secondo dati forniti da varie associazioni di pazienti, vivono circa 
100mila mielolesi. 
L'epidemiologia e la letteratura scientifica affermano che ogni anno sul nostro territorio nazionale ci sono circa 1.200 nuovi casi di lesione midollare; ciò significa che ogni giorno, solo nel nostro Paese, almeno tre persone diventano para o tetraplegiche. 
Ogni anno quindi vi sono circa 3-4 nuovi casi di paraplegia ogni 100.000 abitanti. 
Circa la metà di questi casi ha subito un grave trauma stradale, il 10% un trauma sportivo mentre nel 20% l'origine della lesione è un infortunio sul lavoro o una caduta, nel 15% una malattia neurologica o altre cause ed infine nel 5% la causa è stata scatenata da una ferita d’arma da fuoco o da tentato suicidio. 
Nel mondo vi sono circa 2.5 milioni di persone mielolese, con 130mila nuovi pazienti ogni anno.

26 aprile 2021

Il digestivo siciliano dall'effetto afrodisiaco: quello che non sai sull'acqua "vugghiuta"


 Il "canarino " o "acqua vugghiuta"

Le feste natalizie sono terminate ormai e, tra abbuffate e pranzi sovrabbondanti (al di là delle restrizioni suggerite per il contenimento del Covid-19), almeno una volta tutti avremo fatto ricorso, sperando di alleggerire lo stomaco, al rimedio casalingo principe della tradizione siciliana, il “canarino”.

Il nome non è poi tanto di fantasia ma deriva da quel colore pallido giallo, quasi da snobbare per la sua apparente delicatezza ma dall’efficacia sorprendente, che l’acqua assume durante la preparazione di questo semplice intruglio.

Nella tradizione contadina, infatti, il canarino è chiamato banalmente “acqua vugghiuta”.

Ci sarà un motivo per cui questa bevanda - che si presume risalga al tempo dei Greci - è arrivata fino ai giorni nostri.

La ricetta è semplicissima. Basta far sobbollire un poco d’acqua, alla quale si aggiungono 
scorze di limone, una foglia di alloro 
(il tutto in proporzione) e un cucchiaino di zucchero. Secondo voci di popolo - le più veritiere - si dovrebbe servire accompagnata dalla frase “vivi ca ti passa tuttu”.

La tradizione si sa supera scienza e natura ma se questa ricetta viene sostenuta, diciamo così, anche dal LUDUM, il Museo della Scienza di Catania un fondamento di oggettività ci sarà.

Al di là dello scherzo - che poi è tutto verissimo basta provare per verificare - l’unione delle proprietà del limone con quelle dell’alloro - e nei casi più ostinati si può aggiungere anche un pizzico di bicarbonato che favorisce il ph basico dello stomaco - fanno il miracolo, accelerando le digestioni più difficili.

E parlando con i termini della scienza sono l’amara cinarina del limone e le altre sostanze battericide a fare la differenza.

Come ci hanno insegnato i nostri nonni, infatti, un limone, agrume per eccellenza, va portato sempre con noi perché può essere utile in qualsiasi momento.

Grazie alla presenza degli olii essenziali, con proprietà antibiotiche, fungicide e carminative per il sistema nervoso, il loro estratto è impiegato nell’industria farmaceutica nella preparazione di medicinali stomachici e di tonici amari.

Ma del limone non si butta via niente: la parte bianca, spugnosa, contiene la pectina (regolatore delle funzioni intestinali e antagonista del “colesterolo cattivo”) e i bioflavonoidi, utili per la circolazione venosa e la salute dei capillari (venduti in compresse o gocce nei banchi delle farmacie).

Anche l’alloro, di certo, svolge una funzione importante. Non a caso si usano le corone di alloro, simbolicamente, per rendere omaggio a un momento importante.

Questa pianta della macchia mediterranea contiene un olio essenziale (composto da geraniolo, cineolo, eugenolo, terpineolo, fellandrene, eucaliptolo, pinene) dalle proprietà aperitive, cioè stimolanti dell'appetito, digestive e carminative. Olii utili anche nel trattamento delle coliche, in presenza di meteorismo o aerofagia

Un pizzico di zucchero poi addolcisce, e non guasta, il tutto.

Ma c’è anche una storia, legata a figure mitologiche, che aggiunge un pizzico di euforia a questa apparente blanda bevanda.

Si racconta infatti che il “canarino” - in una versione “corretta” - sia stata offerta dalla regina Climene a Dafni, sposo della ninfa Echenaide, figlia della temibile Era. La regina, infatti, avrebbe aggiunto un po' di vino al canarino sperando negli effetti afrodisiaci di questo ingrediente fuori ricetta.

Il mito racconta che il povero Dafni, il creatore delle poesie bucoliche, trascorse tanti anni tra le campagne siciliane a cantare il proprio dolore senza trovare sollievo, fino a gettarsi da una scogliera, nei pressi di Cefalù.

Ad avere pietà di lui furono gli dei che lo trasformarono in una rupe.

25 aprile 2021

Un dramma d'amore che rivive ad ogni luna piena: il mistero della grotta della Pillirina

 

.La Pillirina a Siracusa (foto di Alessandro Faro)

A Siracusa un suggestivo tratto di costa racchiude un mito che ancora oggi affascina e commuove, si tramanda da tempi remoti e i pescatori raccontano di strani avvistamenti

 Enzo Maiorca, il siracusano più conosciuto dei nostri tempi per le sue imprese da record nel mondo dell’apnea e scomparso nel 2016, definiva la leggenda della Pillirina come una preghiera laica al mare e alla bellezza di questo luogo.

Una storia che riveste di magia eterea uno dei luoghi più affascinanti del litorale siracusano, la penisola della Maddalena  

Nel versante est di quest’ultima si trova un’insenatura naturale con due piccole spiagge e su cui si affaccia un antro bagnato dal mare, detto appunto Pillirina o Punta della Mola, e che affacciandosi sull’isola di Ortigia regala un panorama mozzafiato e tramonti incantevoli.

E proprio questa grotta sarebbe stata il teatro di un dramma d’amore che rivivrebbe ancora oggi nelle notti di plenilunio.

La leggenda legata alla grotta della Pillirina (termine siciliano che significa “la Pellegrina”) narra che a Siracusa, molto tempo fa, abitava una giovane e bellissima fanciulla soprannominata la Pillirina e ammirata da tutti coloro che s’imbattevano in lei. Stando alla leggenda, apparteneva a una famiglia benestante e un bel giorno si innamorò perdutamente di un marinaio.

Come è facile immaginare, e come spesso accade in tutte le storie romantiche che si tramandano, il loro amore era contrastato dai genitori della ragazza che avrebbero voluto per lei un uomo più facoltoso di un semplice pescatore. Ma la giovane, andando contro il volere della sua famiglia, usava incontrarlo di nascosto in una grotta, situata vicino la sua dimora.

Nelle notti di luna piena i due amanti consumavano il loro amore su un tappeto di alghe, trasportate all’intero della grotta dalla corrente del mare.

Ma arrivò un triste giorno, e a causa di una tempesta in mare il marinaio non fu più in grado di presentarsi agli appuntamenti. La giovane donna continuò ad aspettare il suo amato fino alla bonaccia dei giorni successivi, ma la sua pazienza e devozione non furono ricambiate, e l’uomo non fece mai più ritorno su quelle spiagge.

Distrutta dalla disperazione, la fanciulla decise di togliersi la vita gettandosi in mare e raggiungendo, almeno simbolicamente, l’uomo che aveva tanto amato 
Si narra che da allora, e ancora oggi, 
nelle notti in cui la luna piena illumina il cielo 
di quel bellissimo tratto di costa, i pescatori al largo della grotta riescono ancora a scorgere il profilo di una donna vestita solo di raggi di luna impegnata in un eterno pellegrinaggio d’amore.

Questo luogo è oltremodo simbolico per la città di Siracusa perché ripercorre la sua storia, infatti è da questa insenatura che nel 415 a.C. gli ateniesi attaccarono per la prima volta Siracusa per conquistarla. Nelle campagne antistanti le spiagge, ancora oggi, si trovano i resti delle tombe dei soldati siracusani rimasti uccisi in quella famosa battaglia.

Visibili e visitabili, ci sono anche delle caserme e dei bunker risalenti alla Seconda Guerra Mondiale. Recentemente il luogo è tornato in auge nelle cronache che riguardano la città per una battaglia civile combattuta dai cittadini siracusani per far dichiarare la zona Riserva Naturale, scongiurando così la minaccia che in quel luogo nascesse un resort privato che avrebbe negato l’accesso a questo stupendo tratto di costa ancora incontaminato.

Ideale per una gita naturalistica e storica, la Pillirina è anche uno dei luoghi di Siracusa che dona più grande ispirazione dal punto di vista fotografico. Lungo la costa est della penisola della Maddalena, così chiamata per l'esistenza un tempo di una chiesetta dedicata appunto a Maria Maddalena, l’insenatura della Pillirina è uno degli sbocchi dell’area marina protetta del Plemmirio ed è raggiungibile attraverso alcuni sentieri su cui è piacevole fare trekking, partendo dalla località di via Capo Passero.

La leggenda contribuisce sicuramente a rendere ancora più affascinante questo angolo dall’acqua cristallina e dalla natura incontaminata e che è classificata tra le grotte carsiche più famose della Sicilia

11 aprile 2021

Gli "invisibili" chiamati Caminanti di Noto: ultimi eredi della cultura nomade in Sicilia


 Un gruppo di sinti e rom nel 1941

Esiste una comunità in Sicilia che, pur conservando lo spirito nomade, rifiuta d’essere assimilato ai rom. È il popolo dei Caminanti che vive da oltre 70 anni nella Valle di Noto

Sopravvivono ancora popoli gitani sparsi in Europa, ciascuno con un proprio nome e una storia diversa, tutti annotati ai margini delle città e battezzati come "genti del vento", perché dall’aria si fanno trascinare: come nel film Chocolat dove l’irrequieto vento del Nord arrivava e cambiava destini e destinazioni.

Tra queste popolazioni esiste una comunità in Sicilia che, pur conservando lo spirito nomade, rifiuta d’essere assimilato ai rom: sono i Caminanti di Noto.

Da oltre 70 anni nella valle di Noto, in provincia di Siracusa, troviamo il popolo dei Caminanti (dall’italiano camminanti), popolazione seminomade oramai ridotta a qualche migliaio di unità. Si tratta di un gruppo "invisibile" di girovaghi siciliani, continuatori di un’antica tradizione incentrata sulla parola, il canto e le leggende.

Questa frangia etnica, ben radicata nel territorio, cerca di far valere la propria identità popolare ricordando a tutti come la parola "rom" abbia un significato ben diverso dall’uso oggi in voga, e sia semplicemente la traduzione di "uomini liberi".

Vivendo isolati nei quartieri poveri, i Caminanti si dedicano ancora oggi a mestieri ormai dimenticati come l’arrotino, lo stagnino, l’ombrellaio e i giostrai che affollano le feste di paese.

La loro origine non è nota con certezza, sono state formulate diverse e curiose ipotesi, come quella secondo cui sarebbero dei discendenti dei sopravvissuti al terremoto del Val di Noto del 1693 o la tesi che i loro antenati remoti fossero schiavi d'origine gitana mescolati con altre etnie e affrancati grazie alla fine della schiavitù in Sicilia

Quest'ultima ipotesi trova riscontro in alcuni atti notarili del XVI secolo riguardanti la compravendita di schiavi che, negli stessi documenti, sono denominati col termine gizo, parola che deriverebbe dal termine aegyptius (da cui anche "gitano"). Un'altra ipotesi sulla loro origine sostiene che siano discendenti di carrettieri siciliani che hanno continuato la tradizione del nomadismo.

Stando a degli studi che hanno incrociato i pochi dati anagrafici, sembrerebbe che il ceppo originario provenga da Adrano, in provincia di Catania, e che frequentassero Noto come meta di passaggio già verso gli inizi del secolo scorso. Intorno alla metà del '900 ottennero la residenza a Noto

I Caminanti hanno mantenuto intatta l’originaria organizzazione familiare, sotto la guida di un capogruppo più anziano e con matrimoni stabiliti all’interno della comunità, un’unica e grande famiglia. Si distinguono in tre sottogruppi: nomadi, seminomadi e sedentari.

Solo i nomadi continuano la tradizione di allontanarsi dalla terra sicula, ritornando a Noto a Novembre e ripartendo a Febbraio. I seminomadi invece si spostano non oltre lo Stretto di Messina per esercitare il lavoro di ambulante durante le feste patronali e non allontanandosi mai da Noto per più di una settimana.

I sedentari hanno invece del tutto abbandonato la pratica di nomadismo, in particolare questo allontanamento dalla tradizione è quasi sempre dovuto alla presenza in famiglia di un parente anziano o disabile. Le case dei nomadi sono visibilmente diverse da quelle dei sedentari in quanto i primi abitano in grandi ville caratterizzate da portoni d'ingresso a tre ante, mentre i secondi abitano all’interno di palazzi.

Le case dei nomadi sono quasi del tutto disabitate, l'unica stanza utilizzata più frequentemente è quella cui si accede dal portone d'ingresso che funge da unico ambiente, ciò richiama l'antica usanza di vivere all'interno dei furgoni con cui giravano il paese. Data la pratica, ancor oggi comune, di sposarsi tra consanguinei non sono purtroppo rare le patologie disabilitanti, specialmente di tipo più psichico che organico.

I matrimoni sono combinati dalle famiglie, generalmente tra cugini. In origine avevano un loro particolare linguaggio, il baccagghiu: una lingua inventata dalla fusione tra siciliano stretto e italiano e colorata dall’aggiunta d’accenti diversi.

Negli ambienti della malavita siciliana e nelle rappresentazioni dell'Opera dei Pupi era un gergo usato da malavitosi e cantastorie che volevano trasmettere contenuti eversivi. Questa "lingua inesistente" sta progressivamente scomparendo a favore del dialetto del posto e dell'italiano, usato soprattutto da coloro che hanno intenzione di avere rapporti col resto della società. 

Sembra che il baccagghiu sia stato inventato da cinque capi famiglia della comunità dei Caminanti e ha subìto l'influenza di viaggiatori greci che hanno frequentato Palermo intorno al 1500.

Questi "siciliani erranti" sono gli ultimi eredi di una cultura fondata sul movimento, ma hanno fatto proprie le tradizioni locali, favorendo la nascita di una mescolanza variopinta di stili di vita. Possiamo definirli un popolo nel popolo, nei gesti traspaiono i tratti dell’appassionata teatralità siciliana, ma il loro spirito è carico d’orgoglio gitano.

10 aprile 2021

A cu facisti spinnari? Credenze popolari in Sicilia sulle "voglie" delle donne in dolce attesa

 

In passato le voglie di una donna incinta erano così importanti da costringere un uomo a uscire di notte alla ricerca di ciò che aveva scatenato un desiderio di gola a sua moglie


Si sa che ogni uomo che si rispetti deve far fronte ai desideri della moglie, specialmente se questa è in dolce attesa. 

 Le voglie, i disii, di una donna incinta in passato erano così importanti da costringere un uomo a uscire di notte alla ricerca di un frutto, un ortaggio o qualsiasi altra cosa che aveva scatenato un desiderio di gola a sua moglie.

V'era credenza popolare che se la donna gravida non avesse soddisfatto il suo disio, nella peggiore delle ipotesi avrebbe rischiato d'addisertari (l'aborto), oppure avrebbe potuto imprimere nel feto una macchia a forma del cibo desiderato, nello stesso punto toccato durante lo spinno.

A tal proposito un'antica canzone popolare recitava: Comu gravida donna chi disia Frutti ch'a chiddu tempu non ci sù, Si tocca a un puntu cu dda fantasia, Passatu un pocu nun ci penza cchiù: Nasci lu partu cu zoccu vulia, Signatu appuntu unni tuccatu fu. Ccussì fu iu, chi disiannu a tia Tuccai stu cori, e ci arristasti tu.

Lo scrittore e presbitero Antonio Mongitore, vissuto a Palermo a cavallo tra il Seicento e il Settecento, in "La Sicilia ricercata nelle cose più memorabili", si era occupato di tali argomenti. 

 Infatti, scriveva: "Cosa frequentissima è quello che accade alle donne gravide, che bramando qualche frutto, o altra cosa da mangiare, se toccano una parte del corpo, mandano poi a luce il parto colla macchia nel luogo toccato, del frutto o altro da loro desiderato. Vengono questi strani effetti chiamati Desij o voglie. […] 

 Una donna gravida a Palermo ebbe la voglia di mangiar fragole: toccossi il volto, e partorì la figlia coll'impronta d'una fragola nel mezzo delle ciglia, e nel tempo che matura questo frutto, diventava più del solito rubiconda".

 Poteva capitare che il neonato presentasse la voglia non a mo' di macchia ma di vera e propria carne, come una riproduzione in 3D. Nello stesso volume sopracitato Mongitore riportava che a Palermo aveva incontrato "una che aveva un oliva di carne dietro il ginocchio; un'altra con una fetta di uovo di tonno salata sulla guancia". 

 Tuttavia, le voglie potevano avere come oggetto anche cose che commestibili non erano affatto: secondo Mongitore, una donna incinta di Catania desiderò così tanto gli anelli incastonati sulle dite della statua di Sant'Agata, che sua figlia nacque con gli stessi anelli sulle mani "non di pietra ma di carne". 

 Ma occorre accennare anche alla questione relativa agli odori, poiché i recettori olfattivi delle donne in dolce attesa sono particolarmente sensibili.

 Dunque, nell'ipotesi in cui nei fornelli della cucina di un'abitazione, qualcuno preparasse un intingolo o qualche altra prelibatezza, e il profumo di quest'ultima facesse ingresso in casa di una donna incinta, potevano accadere solo due cose. 

 In primis il marito della donna in gestazione sarebbe andato a bussare alla porta della casa chiedendo un po' di quel cibo che aveva scatenato la voglia di sua moglie: nel caso l'avesse ricevuto, la donna gravida avrebbe soddisfatto il disio e la questione si sarebbe risolta lì. E questa era la prima cosa. 

 Ecco la seconda: se, invece, il marito fosse tornato da sua moglie a mani vuote, v'era abitudine di augurare a chi aveva rifiutato di concedere un po' di quella pietanza suscitante desiderio, un agghialoru o riolu, (tumoretto a forma di cece sopra la palpebra). 

 Quindi, s'era diffusa usanza che se si incontrava per strada qualcuno con un agghialoru sopra la palpebra, si chiedeva a quest'ultimo: "a cu facisti spinnari?" 

 A quel tempo per difendersi da tali maledizioni casalinghe, si recitavano questi versi: La mogghi prinulidda è un'assassina, Chi ogni piaciri ti sturba e avvilena, Chianci 'ntr' Aprili ca voli racina, Tra fibbraru vircoca a tutta lena. T'inquieta s'è assittata, o si camina, T'angustia 'ntra lu lettu, a pranzu e a cena, Si vôi ca tò mugghieri 'un ti ruina, Nun curari alli smorfii quannu è prena. 

 Oggi, secondo il parare di chi ancora si affida a tali credenze, a causa del consumismo alimentare estremo, le voglie dei neonati potrebbero assumere forme meno naturali come quelle di hamburgher, wurstel, sushi o patatine fritte. Le voglie dei nostri nonni, sicuramente, sembreranno più salutari di quelle che appariranno ai nostri figli o nipoti, poiché rischiano di ritrovarsi una voglia di carne a forma di iPhone, o di un altro aggeggio elettronico, su qualche parte del corpo. 

09 aprile 2021

Quando il "due pezzi" faceva scandalo: la prima (e ultima) volta di Miss Italia ad Agrigento

 

A qualcuno quello spettacolo di ragazze in costume sembrò troppo scabroso e da allora 
la manifestazione non è stata mai più ripetuta ad Agrigento. 
Ecco cosa accadde

Le Miss alla Focetta di Agrigento nel 1964


Negli anni Sessanta, i "ragazzi bene" di Agrigento d’estate andavano alla Focetta, il locale alla foce del fiume Akragas, a San Leone, primo night nel dopoguerra aperto in Sicilia.

«Giravano abbracciate le coppie sulla pista di quel noto night club nostrano, soffuso di luci e di magica atmosfera mondana, esaltata dagli accordi e dalle note saltellanti del pianoforte di Sasà Grenci», ricorda l’agrigentino Totò Cacciato.

La Focetta diventa presto la meta preferita dell’estate. Presto arrivarono i big. Nuccio Costa, il “Corrado siciliano” presentava nel locale agrigentino i grandi cantanti del momento: Peppino Di Capri, Bobby Solo, Jimmy Fontana, Robertino e tanti altri. Una sera arrivò anche il trombettista Nini Rosso.

Ma questo sereno clima di divertimento e di svago non durò molto. Nelle serate alla Focetta comparvero infatti i concorsi per selezionare la Miss, la graziosa fanciulla che avrebbe rappresentato la Sicilia nel concorso di Miss Italia.

I celebri presentatori Nunzio Filogamo e Nuccio Costa vollero che Agrigento ospitasse la finale nazionale del Concorso Nazionale per Miss Italia e la Città dei Templi fu al centro dell’attenzione nazionale in questa occasione.

A qualcuno quello spettacolo di ragazze in costume sembrò troppo scabroso. Arrivarono così le denunce e marche da bollo per fermare lo scandalo

Cominciò il settimanale della Curia agrigentina, "L’amico del popolo" che, in un editoriale, scrisse parole di fuoco contro gli organizzatori di una serata alla Focetta che aveva come protagonista la cantante nera Eda Pov, in arte chiamata la “Venere Mulatta”.

Il settimanale agrigentino invitava «tutte le famiglie cristiane a reagire con vigore e fermezza ad ogni manifestazione di divertimenti procaci, dove si tenta di reprimere quella sensibilità morale, che ha la sua radice nel “pudore” (“L’Amico del Popolo”, 1° settembre 1963)».

L'anno successivo, la polemica ebbe conseguenze giudiziarie: la sfilata delle Miss, partecipanti alla finale regionale del Concorso per Miss Italia, finì in un’aula giudiziaria.

Cosa accadde lo ricostruiamo riportando la cronaca di quei giorni scritta dallo stesso Mario La Loggia nel suo libro "Agrigento 1960-70. Un decennio rovente".

«Nello stilare il programma per l’Estate in Agrigento Lido, il presidente dell’Azienda, accogliendo una proposta degli organizzatori del Concorso per Miss Italia 1964, inserì tra le manifestazioni la sfilata delle partecipanti attraverso la via Atenea e la via dei Templi, con sosta nella zona archeologica e, infine, al Lido di San Leone.

La sfilata fu inclusa nel manifesto programmatico e, ovviamente, ne fu data partecipazione alla Questura per le autorizzazioni necessarie e la tutela dell'ordine pubblico. Le Miss, in numero di 14, sfilarono su altrettante vetture 1500 Fiat Spyder, tutte di identico colore, messe a disposizione della Fiat Capizzi di Agrigento».

«Le ragazze - prosegue La Loggia - erano tutte in costume da bagno, tranne due che indossavano, cosa mai vista in Agrigento, un costume a due pezzi. La sfilata avvenne in piena regolarità tra due ali di folla interessata e plaudente».

l Collegio dei Parroci di Agrigento si riunì immediatamente e dopo avere stigmatizzato 
"la esibizione procace", che aveva «offeso pubblicamente il sentimento cristiano e la dignità morale e civile del popolo agrigentino», ed essersi richiamato ad alcune norme di P.S., per altro molto vecchie e alla Legge Comunale e Provinciale, concludeva con una nota.

La nota sosteneva che la manifestazione era un «attentato alla tradizionale e mai smentita austerità di costume e un anacronistico ritorno alle forme più aberranti di paganesimo» denunciando all’opinione pubblica il suo «profondo accoramento!». 

All’opinione del Collegio dei Parroci, così manifestata, faceva subito seguito una denuncia all’Autorità Giudiziaria contro il professore Mario La Loggia, da parte del Presidente dell’Azione Cattolica agrigentina.

Il fatto scatenò la stampa regionale e nazionale

"Il Giornale di Sicilia" (3 settembre 1964), con un lungo, articolo a firma di Giuseppe Rizzo, affermò che «la sfilata era stata ispirata da intenzioni che nulla avevano a che vedere con il lamentato tentativo di corruzione del popolo agrigentino; tutt’al più si voleva mettere in atto quello che altrove viene operato senza soverchie discussioni».

"Telestar" (n.d.r. un settimanale locale) con Umberto Trupiano condusse l'11 settembre 1964 un primo breve sondaggio tra la popolazione agrigentina, constatando una maggioranza sia pur lieve di coloro che avevano disapprovato la sfilata.

Ma qualche giorno dopo, Umberto Trupiano, sempre dalle pagine di “Telestar” (15 settembre 1964) affermò di essersi convinto che «tutta la strombazzatura polemica, tutto lo scandalo che è venuto fuori da queste miss, è stato il risultato di una azione politica vera e propria tendente a screditare il prof La Loggia»

«Secondo il piano, - aggiunse Trupiano - screditare La Loggia era necessario per evitare che egli, alle imminenti elezioni amministrative, fosse eletto sindaco di Agrigento (…) Mario La Loggia venne denunciato, insieme alle quattordici ragazze partecipanti alla sfilata, per oltraggio al pudore.

Mauro Pucciarelli del settimanale “Cronaca” (n. 41 del 17 ottobre 1964), scrisse: «Le brave studentesse vennero additate come peccatrici spudorate, mentre gli agrigentini facevano una figuraccia da montanari in arretrato col ritmo d’oggi, di codini, di bacchettoni (ridicoli se in buona fede, deplorevoli se in malafede)». 

Nessuno fu condannato perché la sentenza del Pretore, il dottor Feliciangeli, stabilì che «esibizioni del genere sono ormai comuni e vengono divulgate tra il pubblico con ogni mezzo di propaganda, senza che il senso comune (e non quello particolarmente accentuato del pudore e della decenza) venga offeso».

Il Pretore stabilì anche di non doversi procedere nell’azione penale e che la denuncia era manifestamente infondata.

Al prof. Mario La Loggia è stato chiesto in quei giorni: «È stata certo una manifestazione scioccante, per una popolazione paesana qual è quella di Agrigento; l'avete fatta apposta? — Per la verità, non pensavamo a questo – ha risposto La Loggia -

La popolazione ha reagito bene: con la massima compostezza, anche applaudendo lo spettacolo. Ha capito, infatti, che si trattava di un semplice spettacolo di bellezza. Da quest'anno lo ripeteremo, però in meglio». 

 La manifestazione però, da allora, non è stata mai più ripetuta ad Agrigento.

08 aprile 2021

In ricordo di Aylan Kurdi: insieme a quel bambino sulla sabbia moriva anche l'Europa


La fotografia di quel bimbo senza vita a faccia in giù 
sulla spiaggia tra la schiuma delle onde, 
nella sua t-shirt rossa e nei suoi pantaloncini blu scuro, 
è oggi un ricordo


Il piccolo Aylan Kurdi deceduto sulla spiaggia turca di Bodrum (foto Reuters/Stringer)

Oggi quell’immagine è solo un ricordo sbiadito. E le dichiarazioni, gli impegni scaturiti dalla vergogna per quel corpicino divenuto in poche ore simbolo ed emblema universale di una tragedia che aveva ormai travalicato il più terribile degli immaginari, sono ormai carta straccia.

Solo parole e ipocrisie cancellate dall'accordo sulla gestione dei migranti sottoscritto dai 28 stati europei a Bruxelles con la Turchia.

Aylan Kurdi aveva compiuto appena tre anni, quando la sua vita è stata spezzata in mare, al largo della Turchia da cui era partito a bordo di un gommone con la sua famiglia. Insieme a lui hanno perso la vita altre 11 persone, tra cui il fratello Galip che di anni ne aveva 5, e la madre.

Unico, disperato, superstite il padre, che non ha mai ottenuto lo status di rifugiato e che è tornato a Kobane, in Siria, da cui lui e i suoi cari erano fuggiti dal terrore della guerra e dell'avanzata dello Stato islamico.

La fotografia scattata da Nilufer Demir è divenuta, in poche ore, simbolo della crisi umanitaria legata all’immigrazione; quell’immagine ha costretto il mondo ad alzare lo sguardo sul dramma dei profughi che rischiano quotidianamente la vita pur di raggiungere un luogo che possa garantirgli un futuro, la speranza di una vita normale, lontano dagli orrori e dalle sofferenze delle loro terre.

Dopo la costruzione di nuovi muri, dall'Ungheria alla Macedonia, la chiusura della rotta balcanica, l'invio di navi da guerra per pattugliare l'Egeo e riportare indietro tutti quelli pronti ad attraversare quel tratto di mare, e l’approvazione del decreto sicurezza in Italia,
l'Europa ha fatto un patto col diavolo, pur di difendere i propri confini.

Gli stati membri dell’Unione Europea fingono, però, di non sapere che nonostante i loro muri di sabbia, di cemento, di filo spinato e, in ultimo caso, di articoli legislativi, non riusciranno mai a bloccare i flussi migratori che, aiutati da mercanti di vite umane senza scrupoli, troveranno altre vie per raggiungere le coste di quel continente che ha basato la propria costituzione sul rispetto della dignità umana e su principi come la libertà, la democrazia, l'uguaglianza e lo stato di diritto.

Questi valori, che dovrebbero essere comuni agli Stati membri, per i padri costituenti erano i pilastri di una società fondata sul pluralismo, sull’inclusione, sulla non discriminazione, sulla tolleranza, sulla giustizia e sulla solidarietà. 

 Ma oggi l'Europa tradisce sé stessa, rinnegando quei principi. Su quella spiaggia a Bodrum, il 2 settembre 2015 è morta anche l'Europa. 
Si è persa l'ultima occasione per dimostrare di essere all'altezza della Storia e delle proprie fondamenta.

05 aprile 2021

Pasquetta, perché si chiama “Lunedì dell’angelo”


Il lunedì di Pasqua è stato introdotto dallo Stato italiano
 come festività civile nel Dopoguerra ed è festivo in diversi Paesi. 
Ecco perché si chiama anche "Lunedì dell'angelo"

 

Pasquetta è un diminutivo di Pasqua entrato nell’uso popolare per indicare la giornata che segue la Pasqua. E’ un giorno di festa che generalmente, tempo e restrizioni Covid permettendo, si trascorre organizzando la tradizionale gita fuori porta accompagnata da picnic. 
Ma perché si chiama proprio Pasquetta? Perché si definisce anche Lunedì dell’angelo?

Perché si chiama Lunedì dell’angelo 

La Pasquetta è una a festività che “allunga” quella di Pasqua. Definita anche nel calendario liturgico cattolico “Lunedì dell’angelo”, essa prende il nome dal fatto che in questo giorno si ricorda l’incontro dell’angelo con le donne giunte al sepolcro di Gesù. Il Vangelo racconta che Maria di Magdala, Maria madre di Giacomo e Giuseppe, e Salomè andarono al sepolcro, dove Gesù era stato sepolto, con degli olii aromatici per imbalsamare il corpo di Gesù. Vi trovarono il grande masso che chiudeva l’accesso alla tomba spostato. Alle tre donne, smarrite e preoccupate, apparve un angelo che disse: “Non abbiate paura, voi! So che cercate Gesù il crocifisso. Non è qui! È risorto come aveva detto; venite a vedere il luogo dove era deposto” (Mc 16,1-7). E aggiunse: “Ora andate ad annunciare questa notizia agli Apostoli”. Esse quindi raccontarono l’accaduto agli altri.

L’espressione “Lunedì dell’Angelo”, diffusa in Italia, è tradizionale e non appartiene al calendario liturgico della Chiesa cattolica, il quale lo indica come lunedì dell’Ottava di Pasqua, alla stessa stregua degli altri giorni dell’ottava (martedì, mercoledì ecc.). Un’interpretazione della tradizione vuole inoltre che in questo giorno si ricordi i discepoli diretti ad Emmaus, fuori la città di Gerusalemme, ai quali apparve Gesù.

La Pasquetta 

Il lunedì di Pasqua è stato introdotto dallo Stato italiano come festività civile nel Dopoguerra ed è festivo in diversi Paesi. Esso è paragonabile a Santo Stefano all’indomani del Natale o al lunedì di Pentecoste, giorno festivo in Alto Adige e buona parte dell’Europa. La Pasquetta, in Italia, è un giorno di festa che generalmente si trascorre insieme con parenti, ma soprattutto amici, con una tradizionale gita o scampagnata “fuori le mura” o “fuori porta”, pic-nic sull’erba, grigliate e attività all’aperto.




02 aprile 2021

Solo chi si avventura riesce a trovarlo: Gli Eremi più suggestivi della provincia di Siracusa


Fuori dalle mura di Noto si trova un luogo immerso nella pace e nella bellezza, 
un antico eremo all’interno della suggestiva valle dei Miracoli, 
a pochi chilometri dal centro cittadino barocco


 Eremo di San Corrado Fuori Le Mura (foto di Angelo Criscino)


Fuori dalle mura di Noto si trova un luogo immerso nella pace e nella bellezza, un antico eremo all’interno della suggestiva valle dei Miracoli, a pochi chilometri dal centro cittadino barocco. Il tempo sembra essersi fermato in questi luoghi che una volta furono testimoni di esperienze mistiche, dove tutto tace ed è immobile. 

 Mi riferisco agli eremi che in Sicilia sono numerosi e collocati lungo una linea immaginaria che attraversa diagonalmente l’intera isola. Forse proprio il loro essere nascosti e raggiungibili solo attraverso percorsi impervi, quasi come a voler mettere alla prova chi si avventuri alla loro ricerca, accresce l’aura di mistero che li avvolge.

Opere architettoniche suggestive che, immerse nella natura, offrono delle piccole oasi fuori dal mondo: vie di fuga dalla caotica vita urbana. Tra questi l’Eremo di San Corrado Fuori le Mura è considerato come il santuario montano più interessante dell’intera provincia di Siracusa per via della bellezza del luogo in cui sorge, dei tanti ipogei rupestri ubicati nei suoi pressi, per la presenza della bella Chiesa dell’Eremo e per il suo museo.


Il Santuario, costruito nel 1749 intorno al luogo di preghiera del Santo, è sorto nel sito in cui S.Corrado Confalonieri, patrono della cittadina barocca di Noto, visse all’interno di una grotta, ancora oggi visitabile, in eremitaggio dal 1322 al 1351. Immersa nel verde, la chiesa di San Corrado Fuori le Mura si trova a 5 chilometri da Noto nella suggestiva Valle dei Miracoli, chiamata così per i miracoli compiuti da San Corrado.

Il luogo è raggiungibile tramite una scalinata in pietra che scende dall’abitato di Noto, così come mediante la cava in cui è stato costruito. Il Santuario, addossato ad una parete rocciosa, si trova alla fine di un lungo viale alberato, è in stile barocco e al suo interno custodisce una statua marmorea del Santo cui è dedicata, oltre ad una tela della Madonna col Bambino datata 1759 e ad una pala di Sebastiano Conca raffigurante San Corrado datata 1759.

All'interno della struttura religiosa è allestito anche un piccolo museo di ex-voto, questi ultimi donati in cambio della “grazia”. Qui gli oggetti votivi sono conservati ed esposti in base ad argomento: abiti, ex voto anatomici, ori e argenti, dipinti, arredi sacri e reliquie di San Corrado e dell’eremita Venerabile Pietro Gazzetti. Lungo il viale che conduce al Santuario, sulla destra, una rampa di scale, scavata nella roccia, conduce alla grotta di San Corrado ed alla grotta di San Guglielmo, dal giardino dell'Eremo è possibile ammirare alcune opere in pietra a secco: muretti, una piccola scala e alcuni pozzi.

In questo luogo scorre il torrente San Corrado, le cui acque sono potabili. All'ingresso dell'eremo troviamo un grande cancello in ferro battuto con la scritta "Porta Coeli" (Porta del Cielo) ed una frase in latino che significa Il luogo in cui stai entrando è sacro e porta in Cielo.

n prossimità della chiesa, una scalinata ripida conduce alla Grotta di San Corrado, una piccola apertura nella roccia dentro la quale abitava San Corrado Confalonieri. La grotta ha due stanze, una adibita ad altare e l’altra più stretta dove vi è un masso rettangolare sopra il quale dormiva San Corrado.

Un luogo mistico e decisamente affascinante in cui respirare il senso puro della fede, ma anche ritrovare la propria pace interiore, al di là di ogni credo religioso.


Curiosità: ogni dieci anni l'urna argentea di San Corrado viene portata in solenne processione per tutta la notte dalla Cattedrale di Noto fino a qui, dove giunge all’alba.

 Come raggiungerlo: Oltrepassata la frazione di San Corrado Fuori le Mura, sulla SS 287, vi è una curva che scavalca il torrente San Corrado e che conduce ad un bivio ubicato presso la Contrada Lenza Vacche da cui parte la stradina che, se percorsa dritta, ci conduce alla Cava dei Pizzoni e all’annessa Valle dei Miracoli.


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                         - Silvana La Pira -

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