31 luglio 2021

Il Muratore

 



Un giorno prima di andare al lavoro, mi sono soffermato a vedere un uomo che veniva innaffiato da un passante con una pompa dell'acqua per trovare refrigerio. 
Erano le 14 e fuori la temperatura era di circa 41 gradi. Mi sono fermato perché mi ha incuriosito il suo volto. Io stavo semplicemente camminando ed ero un bagno di sudore, mentre lui stava lavorando sotto il sole a temperature proibitive. Ero immobile a vedere la sua sofferenza. 
Dopo un po' mi guarda e mi dice: 
"Studia caro ragazzo, e scappa all'estero, perché la mia è una vita di merda!!!" 
Gli ho chiesto: "Ma come fai? Ci sono 40' non si può lavorare in queste condizioni..." 
Mi ha risposto: "Ieri io e un mio collega siamo svenuti, ci hanno portato all'ospedale con l'ambulanza, ma il mio capo vuole che il mese prossimo sia tutto finito, devo lavorare per forza, altrimenti niente paga. 4 anni fa lavoravo in Fiat, poi mi hanno licenziato perché non serviva più personale. Ho una famiglia con due figli, e mi sono dovuto arrangiare. 
Oggi faccio il muratore, ma per loro lavorerei anche 24 ore al giorno, per vederli sorridere e stare bene. Ho la schiena a pezzi, e la pelle bruciata dal sole, ma devo farlo..." 
L'ho salutato augurandogli buona fortuna, e lui mi ha offerto una birra che aveva nel suo frigo termico. L'ho rifiutata, e sono andato a comprargliene altre due al bar vicino. 
Mi ha ringraziato dicendo: "Sei un bravo ragazzo, ti auguro che la vita ti sorrida sempre..." 
A quel punto ho ripreso il mio cammino, e nella mia mente avevo impresso continuamente il volto di quel padre di famiglia. Ieri ho incontrato così, per caso, un eroe che nessuno considera. 
Ci sono persone che si spaccano la schiena, le mani e soprattutto l'anima, per poche centinaia di euro al mese. 
Non chiamateli muratori... 
Chiamateli semplicemente EROI !

25 luglio 2021

Melone Cartucciaru di Paceco, il giallo più dolce di Sicilia




Straordinaria frutta siciliana.

 Melone Cartucciaru: un’eccellenza dall’anima antica. 

Ogni anno, in prossimità dell’estate, con il suo giallo colora le campagne di Paceco, nel Trapanese. Precoce e produttivo, non teme il confronto con gli altri meloni.

Nelle campagne di Paceco, a inizio del mese di giugno, cominciano a vedersi tanti accenni di colore giallo. Quel giallo appartiene a un’eccellenza autenticamente siciliana:
il Melone Cartucciaru. Cresce solo in Sicilia e ha una storia straordinaria. Pensate che, per un periodo, era caduto nel dimenticatoio. Grazie alla tenacia degli agricoltori siciliani, però, è stato recuperato e da allora ha vissuto una nuova epoca di splendore. Conosciamolo più da vicino e scopriamo perché è unico.

Cartucciaru di Paceco, bontà siciliana

Il Cartucciaru di Paceco ha una storia antichissima. Si tratta, infatti, di una varietà di melone molto antica, che si coltiva fin dai tempi dell’antica Grecia. Nella Bibbia si legge che la regina di Saba avesse regalato il melone al re Salomone e si narra che Cleopatra fosse solita utilizzare una maschera di bellezza con polvere ottenuta dai semi di melone, zucca e cetriolo. Già in queste epoche il frutto
si coltivava in Sicilia. Diodoro Siculo, nel quarto secolo avanti Cristo, lo aveva inserita tra i prodotti eccelsi. Questo passato glorioso ha poi vissuto un periodo di declino: ecco perché.

Negli anni Novanta e Duemila la coltivazione del Melone Cartucciaru di Paceco venne messa di lato, per dare spazio ad alcune varietà più commerciali, in grado di assicurare raccolti abbondanti in tempi ridotti. Grazie alla tenacia dei contadini e all’impegno dell’assessorato delle Risorse Agricole e Alimentari della Regione Sicilia, però, alcune aziende reintegrarono la coltivazione nei loro poderi. Ottenuta la semente originale da un agricoltore 92enne, uno dei pochi depositari di una tradizione millenaria, i pacecoti sono riusciti a riportare in vita questa coltivazione unica al mondo. E oggi il melone di Paceco trionfa in tavola. Eccone le caratteristiche.

Le caratteristiche del melone di Paceco

Il Cartucciaru è una pianta rustica. Ha una forma allungata, simile a un pallone da rugby, 
con una polpa bianca e molto succosa, dal sapore dolce. Rende il meglio di sé nella preparazione della granita, per il gelato, ma anche per realizzare i dolci della zona. Si utilizza anche in un liquore molto apprezzato. La semina si effettua a metà aprile. Nei mesi seguenti il paesaggio delle campagne si colora di meloni maturi. Questo frutto appartiene, come il Purceddu d’Alcamo (che è però è verde), il tondo giallo di Fulgatore e il bianco tondo, ai cosiddetti “meloni d’inverno”. 
Tenendoli in luoghi ventilati e freschi, 
diventano più dolci con il passare del tempo e si conservano ancora un paio di mesi, alcuni fino a Natale. Sono tutti ottimi frutti da tavola, ma si utilizzano anche per le granite e per il gelato.

20 luglio 2021

Marittimi= soldi.


Questo è quello che pensano tutti. 
Dietro, pero', ci sono sacrifici sovraumani e questo "particolare"
passa inosservato a tutti. 
Sacrifici enormi, che a volte pesano come macigni non solo per i marittimo sulla nave, tra cielo e infinito senza sosta, a volte per quattro mesi di fila, lontano dalla famiglia, dagli adorati figli, dall'amore, da un abbraccio, da una parola di conforto al momento del bisogno, da uno sguardo complice quando serve, da un bacio quando lo desideri. 
E lo stesso vale per chi a casa quell'uomo speciale, quel padre unico per i propri figli. 
Una sofferenza familiare condivisa. 
Un sacrificio condiviso in egual misura, perché il tempo che passa e che viene negato dalle circostanze, nessuno te lo ritorna indietro. 
Ma l'amore è il rispetto per il lavoro e per le vie reciproche vale tutti i sacrifici e tutto il dolore, 
la solitudine dei lunghi mesi lontano. 🏠💪🏻🤍❤️


Non è un film 🎥 è la vita vera. 
La vita di noi marittimi. Fortunatamente l’equipaggio è stato evacuato in elicottero 🙏🏻






19 luglio 2021

Pasticceria Torrisi (u" Catanisi)





di Franco Blandino

......era solito all'uscita dalla chiesa dopo il matrimonio, andare alla villa comunale per le foto di rito, due le foto che non mancano nei nostri album o quelli dei nostri genitori: davanti alla vasca dei cigni e, abbracciati al grosso albero all'entrata... dopodicche' si andava a depositare il mazzo di fiori ai piedi della Madonnina. 



               Villa Comunale   

    


 Statua della Madonnina


Dietro c'era il supermercato dei Ciacera, entrando c'era la cassa con la sig.ra Rita a vigilare sulla destra si saliva una rampa e dentro un gabbiotto c'era lui il Grande Vecchio tra "cartuzze" dei conti e con lo sguardo vigile. Attaccato al supermercato la farmacia della dott.ssa Morana, si accedeva salendo due gradini in un'unica vetrata, un locale angusto tant'e' che il bancone era quasi attaccato all'entrata dietro' una tenda separava il retrobottega. 






Lei la dott.ssa aveva i capelli bianchi e il viso scarno ma in compenso c'era il marito un maresciallo che aiutava. 


C'era un distributore di benzina (c'e' ancora)


Distibutore benzina  Barone     


e dietro c'era il salone di mastro Tore attaccato al salone la sede del MSI....difronte nella piazzatta dirimpettaia l'edicola Ro' Barunieddu' un signore di piccola statura ma sempre elegante nei suoi vestiti la moglie' la sig.ra Ciccina' era conosciuta perche' era un'infermiera a domicilio. 






Chiosco Giornali " Barunieddu "


In piazza dietro il monumento dei Caduti' c'era la sede della Democrazia Cristiana (palazzo Giunta), dove la domenica alle 18 si andava a vedere la partita in tv in bianco e nero. Dirimpetto c'era la sezione del PSI con accanto la pasticceria Torrisi (u'' catanisi)




18 luglio 2021

Compare di notte tra la nebbia dei vicoli: la storia (triste) della donna più bella di Erice


il borgo medievale di Erice



Una leggenda romantica (ma anche dolente) che affonda le sue origini nella tradizione popolare secondo cui nel borgo medievale ci sarebbero le donne più belle della Sicilia

Erice come l’altra Sicilia, come un’idea della irriconducibilità dell’Isola a un’immagine acquisita dalla storia collettiva. È così il Monte Erice, allacciato tra le nuvole, che svetta e troneggia sul mare come un monarca fiero, ripido e selvaggio fra tornanti boscosi e panorami improvvisi.

Il paese è tutto ciottoli e sampietrini, con i muri di pietra che proseguono oltre la fine delle case con digressioni strettissime e varchi misteriosi.

Dominano le severità cromatiche, spezzate come un incanto dalla vividezza dei fiori esposti sui balconi e agli angoli delle persiane, che trascinano con sé i fianchi ossuti delle scalinate e le chine precipitose dei vicoli. Anche la piazza, quasi chiusa su tre lati, è inclinata e sghemba, come non desse pace all’approdo.

Chiese e conventi medievali di questo «tempio incorrotto, di età pietrificate», per dirla col poeta Dino D’Erice, restituiscono al luogo la sua origine medievale, austera e tacitante, fino a che la nettezza dei profili di pietra sbava le sagome all’incanto della nebbia; come in un velo di talco la luce si opacizza e cala la sera, i passanti si fanno radi e solitari, le strade segnano il passo agli angoli dei lampioni, e ogni cosa si trasfigura come nelle pagine di un romanzo di Eugène Sue.

Con la notte, la nebbia inghiotte il paese: prima lo confonde, poi lo fagocita in una cappa onirica e straniante. Il Giardino del Balio, la Torretta Pepoli, il Castello di Venere, e tutto scompare. Sfugge il campanile obliquo dell’antica Chiesa Madre, insieme ad alcuni scorsi fatti salvi e restituiti, e con l’alba Erice si fa un posto gentile, un rifugio fiabesco, nella dimensione intatta che apre lo sguardo al mare delle Egadi.

A Erice si coltiva un mito, la leggenda di un fantasma che compare di notte, confuso tra le ombre lunghe dei vicoli o strisciando al sole torrido della canicola. Lo spirito ha la forma di una banda sinuosa e nera, come un serpente che si affaccia tra le antiche pietre, e richiama la storia triste della donna più bella mai vissuta in questa parte di Sicilia.

La sua anima delicata compare tra le fitte nebbie, conchiusa entro le mura della città a un tormento senza tregua: è il fantasma della Bellina.

Questa fanciulla bellissima, vissuta probabilmente intorno al XIII secolo, pare che infesti con la sua presenza le case abbandonate di Erice, affacciandosi alle finestre delle casupole più infelici per attirare a sé i malcapitati, che, accorsi d’istinto a un cenno affatturato di donna, alla sensualità trasgressiva di un amore imprevisto, giungono - posseduti da lei - al suo cospetto e nel momento in cui gli sguardi si incrociano compiono l’esperienza raccapricciante di vederla tramutata in un’orrenda biscia nera.

In un suo libro sulle leggende popolari siciliane, Giuseppe Pitrè così descrive la terribile scena della trasformazione.

«…allunga le gote, allarga il mento e la fronte sì da empire il vano della finestra; e gli occhi, pur ora sì belli, diventan lividi e lucion di fiamme, rivolgendosi a destra e a manca quasi pendolo d’orologio».

Una metamorfosi terribile, la conversione all’orrore dei sentimenti più puri. Secondo la leggenda, la Bellina era un’incantevole ragazza di nobile casato, con lunghi capelli neri e lineamenti eterei e pieni di grazia, e gli occhi seducenti e alteri.

Chi la vedeva, se ne invaghiva al primo sguardo, desolando al rifiuto che lei opponeva a chiunque mentre restava a lungo affacciata alla finestra della sua casa guardando il mare oltre l’orizzonte. Era di una bellezza pensosa e triste, forse perché aveva nel cuore un unico amore, un soldato partito per una guerra di ventura da cui non fece più ritorno.

Prima di partire, lui le aveva fatto dono di un anello; era la sua promessa di matrimonio, il suo pegno di felice ritorno.

Passavano le settimane e i mesi, cambiavano le stagioni, e della Bellina si innamorò un ricco barone; lei lo respinse, e il nobile pur di averla con sé si rivolse a un mago per farle un incantesimo atroce. Riuscì a impadronirsi del suo anello e lo face maledire, e con questo la ricattò promettendole di restituirlo in cambio di un solo bacio.

All’appuntamento fissato, vedendo il barone che lei resisteva a ogni sua molle lusinga, gettò l’anello in un impenetrabile cespuglio di rovi e se ne andò spedito e scontroso, lasciandola disperata con le mani affossate alla terra per riavere il suo pegno d’oro. Quando le parve di vederlo, invischiato tra i fili cespugliosi, allungò una mano per prenderlo e si punse con una spina, e per incantesimo la Bellina si tramutò in una biscia.

Da allora si dice che vaghi tra dimore solitarie e case abbandonate, in mezzo ai rovi e sulla terra, strisciando come un serpente, condannata in eterno d attirare a sé tutti gli uomini che aveva rifiutato in vita.

Una leggenda romantica e dolente che affonda le sue origini nella tradizione popolare secondo cui a Erice ci sarebbero le donne più belle della Sicilia, e non è un caso che nell’antichità vi era un tempio dedicato alla Venere Ericina, ideale sacro dell’amore e della bellezza.

Ciò nonostante, sempre secondo la leggenda, l’incantesimo avrebbe tramutato l’avvenenza femminile al contrappasso della mostruosità se le donne fossero discese dal monte alla costa, e chissà che la Bellina non sia il custode avveduto di questa credenza affascinante, costringendo a una reclusione dorata tra le nebbie fatate di un’Erice meravigliosa.

04 luglio 2021

La Chiesa Madre e la sua "sacra coperta": la città di Sortino tra antichi simbolismi e tradizione

Il Sagrato e la Chiesa madre di Sortino


L'antico borgo è stato completamente raso al suolo dal terremoto del 1693 insieme a 700 chiese e 250 monasteri di tutta la Sicilia orientale e fu impossibile ricostruire sulle macerie

Nell'entroterra siracusano, situata fra i Monti Iblei e circondata da profonde vallate, si trova 
la città di Sortino: tesoro di storia, bellezze naturali ed architettoniche.

Sorge ad un'altitudine di 424 metri sul livello del mare, su una terrazza rocciosa. La sua storia è indissolubilmente legata al celebre sito della necropoli di Pantalica (XIII sec. a.C.), che ricade sul suo territorio, ed è quindi situata nell'alta valle dell'Anapo.

L'antico borgo è stato completamente raso al suolo dal terremoto del 1693 insieme a 700 chiese e 250 monasteri di tutta la Sicilia orientale, si scelse quindi di abbandonare il sito per l'impossibilità di ricostruire sulle macerie.

Il nuovo paese fu interamente ricostruito più in alto, sulla sommità della collina Cugno del Rizzo, secondo un assetto urbanistico tipico della città di nuova fondazione: a schema reticolato e con due direttrici perpendicolari l’una all’altra (oggi Corso Umberto I e via Libertà) che, nel loro punto d'intersezione, davano luogo alla piazza ottagonale Quattro Canti, ancora oggi cuore pulsante del paese.

Il celebre miele di Sortino è senza dubbio il suo prodotto alimentare più noto: viene prodotto presso il territorio sortinese dall'epoca in cui gli Arabi, durante la loro occupazione della Sicilia, insegnarono agli abitanti del luogo come produrlo. Sortino è per l’appunto definita “la città del miele” per la sua eccellente produzione.

Ma questa cittadina vanta un’altra particolarità, il sagrato della Chiesa Madre. L'architetto Michelangelo Alessio disegnò il primo progetto della Chiesa Madre, dedicata a San Giovanni Evangelista (1734- 1759), e con essa il sagrato.

Su un piazzale lastricato magistralmente con ciottoli di fiume bianchi e neri e delimitato da pilastri quadrangolari sormontati da grosse anfore, si erge questa chiesa, la cui facciata in stile barocco, presenta tre nicchie contenenti le statue di San Giovanni, Mosè ed Elia e un portone centrale affiancato da due coppie di colonne tortili. L'interno è a tre navate delimitate da grossi pilastri che confluiscono in un luminoso transetto su cui è impostata la cupola.

Ma torniamo al vero gioiello di questo luogo: il termine sagrato viene dal latino "sacratum" ("spazio consacrato") ed è appunto il luogo sacro che sta davanti alla chiesa e che serviva in passato anche da rifugio.

Il sagrato della Chiesa Madre di Sortino, iniziato nel 1774 e finito 10 anni dopo, 
rappresenta l'elemento simbolo dell'intera comunità sortinese perché racchiude in sé la tradizione e la religiosità.

Ricorda infatti i disegni tipici delle coperte che anticamente venivano lavorate dalle sapienti mani delle donne sortinesi (“vancali”) e che si mettevano ai piedi del letto, nello stesso tempo le decorazioni geometriche svelano un sistema cifrato di elementi simbolici in cui la comunità ha trasferito e riposto la propria identità e le proprie speranze di continuità.

Il sagrato, quindi, può essere accostato all'immagine metaforica di una sacra coperta ai piedi della Chiesa Madre: è un ciottolato, cioè un insieme di pietre di vari colori raccolte dagli abitanti di Sortino dal fiume Anapo e trasportate al paese dagli stessi sortinesi. In realtà possiamo dire che erano 
le donne sortinesi che, andando a lavare i panni al fiume, raccoglievano delle pietre di forma e dimensione ben precise. Le pietre potevano essere posizionate di testa verso l’alto, a coltello, di piatto e a spina di pesce. Anticamente il sagrato era recintato in tutto il suo perimetro, mentre oggi possiamo trovare solo dei pilastri sormontati da pigne che simboleggiano l’abbondanza.

Il sagrato, come già detto, è un simbolo religioso: negli scalini d'entrata possiamo trovare dei fiori a quattro punte (simbolo di purezza) che servivano ad allontanare gli spiriti malvagi davanti alla chiesa e nella parte superiore; davanti all'ingresso si trova una grande stella a otto punte con due corone ai lati che sono disposte come raggi solari.

I ciottoli sono disposti a formare disegni geometrici dove si distinguono triangoli (simbolo della trinità) che messi insieme formano le losanghe, linee zig zag, rombi, calici sormontati da forme circolari, disegni a forma di x (forse a simboleggiare il nome di Cristo): identificati come occhio apotropaico o simbolo femmineo di fertilità.

Infatti le decorazioni geometriche svelano un sistema cifrato di elementi simbolici, ripetuti come in un mantra, invocanti alla fertilità e facenti riferimento al linguaggio iconografico arcaico sviluppatosi attorno al culto preistorico della Dea Madre (la Vergine Maria), divinità generatrice venerata nell’intero bacino del Mediterraneo, la cui venerazione spesso in questi luoghi supera quella per il Cristo stesso.

Ogni spazio sacro necessita di un elemento fisico che ne permetta l'isolamento, la separazione dalla vita terrena, che lo preservi dalla contaminazione del caos. Nelle culture nomadi arcaiche, lo spazio sacro della preghiera era compresso, per ragioni pratiche, nella scala individuale del tappeto, capace di isolare l'uomo dal terreno.

Nella sua dilatazione scalare, come lo era il tappeto per l'unità, il sagrato rappresenta l'elemento di determinazione sacra per l'intera comunità, che in esso si identifica. Qui, più che altrove, tutto questo trova compimento in una mirabile opera.

Biagia - Silvana ❤ La Storia di Pozzallo_3 Silvana La Pira_3

                         - Silvana La Pira -

anticamacina

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