30 maggio 2021

In quale anno è nato Gesù? E quando è stato crocifisso? (No, non aveva 33 anni)


Chi ipotizza di celebrare il bimillenario della morte di Cristo nel 2033 compie, con ogni probabilità, un errore: ecco cosa pensano oggi gli storici sull’anno di nascita di Gesù, e a 
quale età sarebbe stato crocifisso



CITTÀ DEL VATICANO — Di recente ne ha parlato il presidente di Confindustria, Carlo Bonomi. Qualche tempo prima ne aveva accennato anche Nicola Zingaretti, presidente della Regione Lazio. Già si comincia a pensare al modo di celebrare il «bimillenario della morte di Cristo» nel «2033». Ma nessuno sembra sospettare che, in realtà, si arriverebbe con tre anni di ritardo. 
Certo la sostanza non cambia.

Però lo sa la Chiesa, lo sanno gli studiosi: Gesù non fu crocifisso nell’anno 33 e, quando morì, non aveva trentatré anni.

Le discussioni non mancano, ma la data considerata più probabile è venerdì 7 aprile dell’anno 30. Con buona pace della tombola («gli anni di Cristo!») e delle simbologie legate al numero 33, a quanto pare Gesù, quando morì, 
di anni ne aveva 36. Tutto dipende dal fatto che quindici secoli fa, quando si definì l’ «era cristiana», si è sbagliato a calcolare la data della nascita e, di conseguenza, quella della morte. Cominciamo dal principio.

Gesù, nato «avanti Cristo» I quattro Vangeli non indicano né la data di nascita né la data di morte di Gesù. Ma sappiamo che Erode il Grande, re di Giudea, muore nel 4 avanti Cristo. Quindi Gesù non può essere nato più tardi. Suonerà strano, ma il Cristo è nato «avanti» se stesso, o almeno il se stesso del calendario. Perché, a seguire il racconto di Matteo (2,16), quando Gesù nasce Erode è ancora vivo: ed è lui che, dopo aver saputo dai Magi della nascita di quel bimbo che chiamano «re dei Giudei», ordina di uccidere tutti i bambini «da due anni in giù», segno che il bimbo non era appena nato. C’è da considerare anche il periodo tra la fuga in Egitto di Maria e Giuseppe con il bimbo e il ritorno, quando nel racconto evangelico un angelo appare in sogno a Giuseppe e gli dice di rientrare nella terra d’Israele «perché sono morti quelli che cercavano di uccidere il bambino», cioè Erode.

A complicare la faccenda, e a far ballare un altro anno, c’è da dire che l’ «anno 0» dell’era cristiana non esiste: per quanto oggi ci possa sembrare assurdo, il calcolo passa direttamente dall’1 avanti Cristo all’1 dopo Cristo. E questo perché, quando il monaco Dionigi il Piccolo definì a Roma all’inizio del VI secolo la datazione «Anno Domini», non esisteva ancora il concetto di zero, che in Occidente viene trasmesso solo nel 1202 dal Liber abbaci del grande matematico pisano Leonardo Fibonacci: la parola «zero» è la versione toscana del latino zephirum con il quale Fibonacci aveva reso l’arabo sifr, diffondendo in Europa la numerazione indo-araba che usiamo oggi grazie soprattutto all’opera del matematico persiano Muhammad ibn Musa al Khwarizmi, vissuto tra l’VIII e il IX secolo dopo Cristo

A farla breve, insomma, la gran parte degli studiosi colloca la nascita di Yehoshua ben Yosef, Yeshùa nella forma abbreviata, intorno agli anni 6-7 avanti Cristo.

Come è nato l’errore? Del resto, che ci sia stato uno sbaglio non è un mistero e la Chiesa ne è consapevole. Ne parlò pubblicamente San Giovanni Paolo II durante un’udienza generale del mercoledì, il 14 gennaio 1987: «Per quanto riguarda la data precisa della nascita di Gesù, i pareri degli esperti non sono concordi. Si ammette comunemente che il monaco Dionigi il Piccolo, quando nell’anno 533 propose di calcolare gli anni non dalla fondazione di Roma, ma dalla nascita di Gesù Cristo, sia caduto 
in errore. Fino a qualche tempo fa si riteneva che si trattasse di uno sbaglio di circa quattro anni, ma la questione è tutt’altro che risolta». In effetti, molti studiosi propendono per sei.

Ma com’è possibile che si sia sbagliato? Il monaco Dionigi il Piccolo era un grande erudito ma a quanto pare si ingannò nel tradurre dal greco un passo fondamentale di Luca, l’indicazione cronologica più precisa dei Vangeli, all’inizio del capitolo 3: «Nel quindicesimo anno di governo di Tiberio Cesare», Giovanni comincia a battezzare nel Giordano. Gesù lo raggiunge, viene battezzato e comincia il suo ministero pubblico, si legge nel versetto 23, quando archómenos hosèi etôn triákonta, aveva «circa» (hosèi) trent’anni. Dionigi tradusse come se fossero trent’anni o quasi trent’anni, secondo le interpretazioni, e in base alla cronologia romana di Tiberio calcolò come data di nascita 
il 25 dicembre del 753 dalla fondazione di Roma, fissando come anno 1 dell’era cristiana il 754, un gioco da ragazzi. Ma sbagliato: in greco l’espressione «osei eton triakonta» indica un trentenne, non trent’anni precisi: e infatti, calcolano gli studiosi, Giovanni Battista inizia a battezzare nella regione del Giordano tra la fine dell’anno 27 e l’inizio del 28, e a quel tempo Gesù avrebbe avuto trentatré o trentaquattro anni.

E così si arriva all’errore nell’immaginare 
la data della morte. Seguendo la cronologia del Vangelo di Giovanni, che appare più corretta, Gesù e i discepoli si riuniscono per l’Ultima Cena la sera del giovedì, dopo il tramonto e quindi all’inizio del 14 di Nisan, il giorno di preparazione della Pasqua nel rituale ebraico. Il calendario ebraico calcola il ciclo lunare e la data della Pesach non è in un giorno fisso della settimana, come la domenica per la Pasqua cristiana. La Pasqua ebraica - che fa memoria di quando Dio «passò oltre» (pasàch, da cui Pesach) le case degli israeliti nella decima piaga dell’Esodo e quindi della liberazione del popolo di Israele dall’Egitto - quell’anno cadeva di sabato

.Considerato che Gesù è morto dopo i trent’anni, le date possibili erano soltanto due, corrispondenti ai due anni intorno al terzo decennio dopo Cristo nei quali Pesach era di sabato: l’anno 30 o il 33. Quando ancora non ci si era accorti dell’errore nel calcolare la nascita, si è pensato che l’anno 30 fosse troppo presto e che quello giusto fosse, appunto, il 33.

Ma se Gesù è nato tra il 6 e il 7 avanti Cristo, il 33 è troppo tardi, sarebbe morto quasi quarantenne. E allora non resta che l’anno 30. Ad essere precisi, per il bimillenario toccherebbe anticipare. A meno di voler mantenere la simbologia, come fece proprio Giovanni Paolo II celebrando solennemente il Giubileo del 2000, anche se sapeva che i duemila anni dalla nascita di Cristo erano in realtà già passati.

29 maggio 2021

Personaggi di Favara, u Miricaneddru


Chi partiva alla volta della “Merica”, alla fine del 1800 fino alla prima metà del 1900, nella stragrande maggioranza di casi, non ritornava, anzi altri pezzi della sua famiglia, anno dopo anno, andavano a ricomporre il mosaico del nucleo familiare nel Nuovo Mondo. Affrontavano enormi sacrifici, avvertiti come una sorta di passeggiata abituati come erano alla fame e al duro lavoro nei campi e nelle miniere del Paese d’origine. Chi ritornava godeva in città di grande considerazione ed era “ntiso” da tutti come u miracanu o a miricana. Il titolo si estendeva agli ascendenti e ai discendenti, si era figlio, moglie, fratello o sorella du miricanu. Personalmente ero “ntisu” come il figlio da miricana, mia madre fece parte, per fortuna o per sfortuna, dei pochi a fare ritorno. Giuseppe Maurizio Piscopo ci racconta la storia di uno dei pochi favaresi ritornati dall’America a Favara. F. P.


Nella discesa che porta dalla Matrice a Piazza Cavour, uno degli angoli più poetici e suggestivi di Favara, c’era una volta un negozio di scarpe.

Era quello di u miricaneddru un tipo molto eccentrico che vestiva all’americana e ogni tanto masticava qualche parola di inglese, famose le sue scarpe bianche e le giacche a righe.

Un giorno arrivò da lui un favarese che era stato qualche settimana a Bruccolino e per vanità gli voleva far sentire che in poco tempo aveva imparato l’americano, quando lui l’ascoltò, quasi infastidito dalla pronuncia, lo fermò subito con una frase ad effetto ed un sorriso di scherno, lui che sorrideva raramente gli disse:-“Take the bread on the mouth” che tradotto significa mettici pani m’bucca, come dire vedi di parlare come ti ha insegnato tua madre!

Oggi al posto di quel negozio “storico” c’è un fioraio. U miricaneddru abitava in via Sottotenente Giglia. Gli piaceva molto cantare ed accompagnarsi con una vecchia chitarra, i vicini a quanto pare non gradivano la sua musica e spesso e volentieri nascevano discussioni e problemi, perché con i favaresi soprattutto al primo incontro bisogna trovare la chiave giusta, saper parlare e saper chiedere le cose con i giusti modi per ottenere qualcosa altrimenti è la fine per sempre! Si racconta che il campiere infastidito e nervoso per ragioni personali, dopo un’accesa discussione gli sfondò la chitarra in testa.

Un giorno e lo ricordo benissimo, come fosse ieri, con mia madre siamo andati nel suo negozio per comprare un paio di scarpe per la festa. Si avvicinava il Natale e a Favara come vuole la tradizione quel giorno i bambini mettono il vestitino e le scarpe nuove.

Il negozio era piccolo ed era strapieno di scarpe, sistemate ovunque alla rinfusa, una scatola sopra l’altra in maniera disordinata. Quel giorno nel negozio una signora molto “camurrusa”, cercava un paio di scarpe per il figlio Lilliddru, un bambino bello, grassottello e capricciosissimo, che stava mangiando un panino con la mortadella nel negozio e la cosa infastidiva non poco u Miricaneddru che guardò negli occhi la signora come a dirle. “Non lo sa che nel negozio non si mangia”? E la signora leggendo quello sguardo facendolo sentire a tutti, con voce decisa rispose: “E chi voli u picciliddru havi fami, havi a crisciri! Il bambino che dava grandi morsi a quel panino, ogni minuto chiedeva l’acqua alla mamma per non strafogarsi e ridacchiava ogni volta che u Miricaneddru era in difficoltà. Tutte le scarpe che aveva provato erano strette poiché aveva un piccolo problema al piede destro. Fu allora che u Miricaneddru, che spesse volte perdeva la pazienza con i clienti, prese la scala a forbice e salì per prendere un ultimo paio di scarpe che aveva sistemato molto in alto.

Andava di fretta perché aveva la casa piena e ogni scalino che saliva diceva forte: sei anni 28 sei anni 28 per ricordare la misura. Ora, forse perché aveva messo la scala male o non l’aveva fissata bene, aprendola di fretta, o per una storta al piede, ricordo che mentre era in alto in alto, fece un tonfo con la scatola che teneva ben stretta tra le mani.

Tutte le scarpe volarono come stracci, le scatole si aprirono facendo un grande rumore e creando lo scompiglio e il terrore fra i clienti. Chi si fici, chi si fici gridarono tutti? Per fortuna non ci fu bisogno del dottore. U Miricaneddru si alzò da terra sanguinante, disse delle parole incomprensibili in inglese e quel giorno si rifiutò di vendere le scarpe alla signora, che cacciò via e con voce ferma le disse:-“ Signu pi vossia scarpi un ci nn’è, si li issi accattari a n’antra banni nu Granmillanu o Carminu e si livassi davanti! Come in, come in disse rivolgendosi alle persone di fuori che erano accorse per godersi lo spettacolo! Le persone uscirono dal negozio stordite e strada facendo commentavano, chi mala iurnatu pi u Miricaneddru!

28 maggio 2021

A sciarra è ppà cùtra.

 


di GIUSEPPE GALFO

Quannu s'aspàrtievunu chiddu ca era scrittu 
u parucu mittìa a cùtra nivira nto tabùtu 
e circannu dàziu comu ri dirittu
ogn'unu rè parènti facìa finta i sìri mutu.
 mentri tuppuliàva a cui nun rispunnìa 
 nta stanza appiessu o muortu c'era na uciàta 
"vi incìstru a usazza e vi scurdastru i mìa" 
vanniàva na parenti ca si sintìa scùrdata.

 "A cùtra ri la nanna almenu ma tà ddàri" 
ricìa ccù vuci rutta tutta 'ncullariàta 
Marìa chi gran piccatu da cùtra ri lassàri 
 pinzàva cui avìa avùtu la sà parti rispittàta. 

 Rò parucu pì 'n cuntu a i parenti ciù vicìni 
 nessunu ca tagghiàva sta cura vilinùsa 
macàri cui avìa avutu i sacchetti sempri cìni 
armàva sempri sciàrri ppì stà binirìtta cùtra. 

GiGa 2021

24 maggio 2021

Per tutte le volte che hai detto "Botta ri sale": come nasce il modo di dire siciliano

      

Il sale, in Sicilia, ha dato da lavoro, è servito per scongiurare il malocchio ed è diventato pure un modo di dire tipico del nostro dialetto. E noi vi sveliamo qual è la sua origine

Chi non ha mai sentito l’espressione 
botta ri sale? Da che mondo è mondo l’uomo ha sempre avuto un rapporto di dipendenza dal sale che risale dai tempi della preistoria.

Per esempio, anni fa grazie ad una borsa di studio mi trasferii per un periodo a Cambridge, in Inghilterra. Poi, giunto luglio, le belle giornate, e i saldi, la famiglia mi fece una sorpresa e mi venne a trovare portandosi appresso pure mio nonno. E un giorno, proprio durante questo periodo, in cui le vetrine erano tempestate di targhette con scritto “sale" (è questa la parola anglosassone che sta per sconto), e io mi trovavo a passeggio con il mio capostipite, all’improvviso arrivò la chiamata dal continente (Italia).

Era mia nonna che finalmente aveva rintracciato il disgraziato di mio nonno che da quando era partito s’era dato alla bella vita e non si era fatto più sentire: “Pino” (questa è mia nonna) “perciò, com’è sta Inghilterra?”. “Mah,” (questo è mio nonno) “piove sempre e vendono sale na tutti i negozi!”.

Bene di prima necessità e di antichissima tradizione, il sale, arriva fino a noi rimanendo pressoché inalterato nella sua importanza e moltiplicando i suoi usi. E questa cosa la diceva pure l'uomo del sale, l’ambulante, quello di “quando mi cercate non mi trovate” che, quando voleva proprio mettere i puntini sulle “i”, non dimenticava mai di precisare che “prima ri l’ogghiu ci vuoli u sali”, cioè ne rimarcava l’importanza antecedendolo perfino all’olio.

Che poi, l’uomo del sale, l’ombrellaio, l’arrotino, e “aggiustiamo cucine a gas” (questo non si è mai dato un nome d’arte), non si è capito mai se erano tutti una famiglia o se piuttosto era sorta di lega/corporazione tipo Avangers per i supereroi.

Comunque, ha dato da mangiare, ha dato lavoro, è servito per scongiurare il malocchio, è stato pure in discoteca (vedi il tormentone “sale sale e non fa male”) - forse non è proprio l’esempio più calzante - e in Sicilia, ovviamente, è finito per diventare pure un modo di dire (botta ri sale appunto) che indica: stupore, spavento e, nei casi più estremi, viene anche usato come 
mandata a quel paese:“botta ri sale a tia”.

Ma qual è l’origine di questo modo dire? A parte il nostrano Giuseppe Pitrè (santo subito!) che ha dedicato l’intera vita allo studio delle nostre tradizioni svelando numerose zone d’ombra, la scienza ufficiale (ufficiosa forse) che si occupata della materia, tutto ha rintracciato tranne l’origine di questo modo dire che, fino ad oggi, si è spiegato per supposizioni e sommi capi.

Una delle tesi più accreditate è quella legata alla raccolta di sale nelle miniere di salgemma. 
Tre miniere ci sono in Sicilia, quelle di Realmonte e Racalmuto (in provincia di Agrigento) e quella Petralia Soprana (provincia di Palermo). Ecco, a tal proposito, si racconta che durante il turno di lavoro, faticoso ed estenuante, proprio i minatori, quando capitava che sbattevano lo strombolone (la testa) nelle dure pareti saline, erano soliti esclamare "botta di sale!".

Bella questa versione, quasi romantica, ma è vera? Questo non lo possiamo sapere. Tuttavia, e questo è solo mio parere, da siciliano posso affermare che, considerando il tenore di vita dei minatori, l’orario in cui si svegliavano, la fatica che facevano, e quanto guadagnavano, laddove qualcuno avesse sbattuto lo strombolone, sarebbe stato più facile sentirgli nominare tutti i santi in ordine alfabetico, piuttosto che sentirgli esclamare l’espressione “botta ri sale!”.

Se proprio volessimo fare un’analisi di altro tipo, tanto perché abbiamo due minuti da perdere, dovremmo considerare che, specie nel 
Medioevo e nel Rinascimento (periodi in cui assembramenti e tavolate - vedi i banchetti - erano quasi disciplina olimpica), la cucina ha cominciato a orientarsi verso le associazioni: dolce uguale ricco - salato uguale povero.

E per rinforzare tale tesi potremmo benissimo prendere in esempio il fatto che, giusto a Palermo, c’è un quartiere che prende il nome da questo rapporto cibo-ricchezza: il 
quartiere di Falsomiele.

Anticamente, infatti, questa zona era piena di appezzamenti di cannamele (canne da zucchero) dalla quale, attraverso una lavorazione, si estraeva una sostanza simil miele che prendeva il nome di “falso miele” (ovvero miele dei poveri, perché il miele quello vero era cosa per persone con i picciuli).

Altro che il caffè essiccato nella pasta di Cracco, altro che la provola nella triglia di Cannavacciuolo, se andaste a controllare un qualche menù del tempo (in rete si trovano) vi rendereste conto dell’uso smodato che si faceva di zucchero e miele addirittura nelle portate principali e negli arrosti.

Questo significa che: a) ci deve deve essere stata un’epidemia di diabete e non ce ne siamo accorti. b) volendo ben pensare quello King Kong in “Mery per sempre” ai tempi sarebbe già stato un sorriso smagliante.

Per contrapposizione, se i ricchi mangiavano zucchero, i poveri mangiavano sale (vedi anche l’espressione “manciarsi l’ossa cu sali” cioè mangiarsi le ossa con il sale, che indica proprio povertà o essere rimasti senza niente).

Il sale a tal proposito serviva al posto del nostro frigorifero per conservare le vivande.
 E se i ricchi si potevano permettere di mangiare la selvaggina appena cacciata, i poveri mangiavano carne essiccata e, forse forse, quando finiva rimanevano solo e soltanto le “ossa cu sali”.

Provate ad immaginare di un marinaio in navigazione a cui dopo giorni di mare, vento, salsedine, viene servito per pranzo una porzione di carne secca sotto sale. 
Siete lì, belli come il sole, state sbummichiando dalla fame, e cafuddate un morso per tutte le ruote.

 Cosa mai potreste mai esclamare? Facile: n’chià botta ri sali!


23 maggio 2021

Tante stanze quanti i giorni dell'anno: dove si trova il castello più "ricercato" di Sicilia


Dalla sua posizione si gode di una vista spettacolare ma del castello oggi restano soltanto dei ruderi e una leggenda, con tre donne protagoniste. Ecco dove si trova

Il Castello Barresi a Pietraperzia (Enna)

Nel cuore della Sicilia sorge un antico borgo ricco di storia, cultura e tradizioni: 
Pitra in gallo-italico o Petrapirzia in siciliano.

Pietraperzia è un piccolo comune di circa 7000 abitanti in provincia di Enna.

Il nome Pietraperzia deriva dal dialetto siciliano petri pirciati, che significa "pietre forate" e probabilmente deriva dalla presenza, su tutto il territorio, di numerose rocce perforate e tombe a grotticella di epoca pre-ellenica scavate nelle pendici della roccia sulla quale sorge la città.

Il suo nome si deve ai Romani e la sua prosperità si deve alla nobile famiglia Barresi. Anticamente si chiamava Petra ed era popolata dai Sicani che controllavano il fiume Himera inferiore – oggi Salso – dalla sua porta di ingresso costituita da Sabucina e Capodarso su cui la città domina come una fortezza.

Dopo i Sicani anche Siculi, Greci, Romani hanno abitato il territorio pietrino lasciando segni del loro passaggio. L'epoca d’oro di Pietraperzia però è stata quella del sedicesimo secolo quando i Barresi, baroni della città, diventarono prima marchesi con Matteo III Barresi, fondatore di Barrafranca (1529), e poi principi con Pietro Barresi (1564).

II Castello di Pietraperzia, costruito dai Normanni tra il 1067 e il 1091, sorge su una rupe calcarea ed è collocato a 549 metri sul livello del mare, è stata l’abitazione dei Principi Barresi e diventò ritrovo preferito di gente amante di cultura e politica.

Oggi del Castello non restano che ruderi, però rappresenta ancora il monumento più noto e più ricercato di Pietraperzia e

Per i Barresi, lo scultore palermitano Antonello Gaggini realizzò nel 1523 i sarcofagi marmorei custoditi nella navata sinistra della chiesa di Santa Maria Maggiore di Pietraperzia e nel 1527 alcuni preziosi manufatti marmorei per il Castello.

Una particolarità di Pietraperzia è che ancora oggi vi abita una famiglia nobiliare, 
quella del Barone Tortorici, che vanta numerosi possedimenti nel centro abitato e nelle campagne pietrine, tra cui il bellissimo palazzo su Piazza Matteotti, Palazzo Tortorici, appunto, in stile gotico, progettato dall’architetto Basile e costruito verso la fine del 1880 utilizzando la pietra arenaria rossa.
Pietraperzia, oltre ad essere ricca di affascinanti architetture religiose e civili, è anche ricca di miti leggende.

Pietraperzia, oltre ad essere ricca di affascinanti architetture religiose e civili, è anche ricca di miti leggende.

Tra queste riveste una grande importanza la leggenda del Santuario della Madonna 
della Cava, che si trova poco distante nell'omonima contrada di campagna e che merita di essere visitato. Si racconta che la contrada Cava prese nome dal leggendario ritrovamento in una cava dell’immagine della Madonna, dipinta su una lastra di pietra arenaria, da parte di un muto trapanese, prima del 1223.

Proprio nell’istante del ritrovamento, il muto riacquistò la parola lodando ad alta voce Maria. La notizia della scoperta miracolosa si sparse velocemente e una folla andò in processione, accompagnata dai sacerdoti, per venerare l'immagine.

Una volta arrivata alla Cava, la folla tentò di trasportare l'immagine nella cattedrale del vicino paese ma non fu possibile perché appena cominciava a camminare, la lapide si rompeva frantumandosi e riacquistava subito la sua integrità quando la folla si fermava.

Questo prodigio avvenne più volte e ricordò che la Vergine aveva chiesto di essere patrona di Pietraperzia, tutti capirono che in quello stesso luogo doveva essere costruita una nuova chiesa.

Così in breve tempo nacque il Santuario di Maria Santissima della Cava che da allora si trova incassato in una grotta ai piedi della collina.

L’immagine della Madonna, opera di antichi artisti, è collocata su un trono artisticamente intagliato in legno di cipresso e decorato con oro zecchino; di rilievo artistico sono il piedistallo in alabastro dello scultore Gaggini e gli stucchi dell’artista Fantauzzo.

Altra leggenda è quella legata al Castello. L’edificio in origine comprendeva un’area di circa 20.000 m 2 e le mura si estendevano per 1.150 m e in alcuni punti raggiungevano oltre 4 m. Lungo le mura si elevavano diverse torri e bastioni di cui non è rimasta traccia, ad eccezione dei resti di un torrione merlato detto “Corona del Re” e della Torre quadrangolare dell’ingresso, nonché di alcuni bastioni a sud e a nord.

Una leggenda narra che le stanze del castello fossero 365 come i giorni dell’anno, elevate su 4 piani come le stagioni dell’anno, e con 12 torri tanti quanti sono i mesi.

Un giorno tre donne, spinte dalla curiosità e dalla speranza di trovare qualche oggetto di valore, scesero nei sotterranei del castello e iniziarono a camminare ma, per non smarrire la via d’ingresso, si portarono dietro uno spago. Iniziò così una strana processione: ognuna delle tre donne teneva lo spago in una mano e nell’altra una candela e andavano avanti di stanza in stanza.

La curiosità però giocò loro un brutto scherzo: una di loro, infatti, attratta da qualcosa, probabilmente un luccichio, inavvertitamente finì per bruciare lo spago e rimasero per sempre sepolte nei sotterranei.

Pare che la storia di queste tre donne sfortunate fosse un fatto realmente accaduto durante il regno di Federico II di Svevia (1194-1250).

Altra leggenda della comunità pietrina è quella legata allo scambio delle statue di due Santi: Sant’Alessandro, patrono di Barrafranca (EN) e San Rocco compatrono di Pietraperzia (EN).

La leggenda vuole, infatti, che la statua di Sant’Alessandro si trovasse a Pietraperzia e quella di San Rocco a Barrafranca. A causa di una forte siccità, le due comunità decisero di fare un pellegrinaggio alla Madonna della Cava, portandovi in processione le statue di san Rocco e di Sant’Alessandro. E così ebbero un’abbondante pioggia.

Nella confusione che seguì al ritorno, i pietrini, per sbaglio, portarono a casa San Rocco e i barresi Sant’Alessandro, scambiando così per sempre le due statue. Non è un caso che i barresi mostrino nei confronti di San Rocco una grande devozione, recandosi ogni anno il 16 agosto, giorno in cui si festeggia il Santo, nella vicina Pietraperzia.

È possibile raggiungere Pietraperzia in auto da Enna: prendere SP29 in direzione SS 117bis; continuare per SP122, SS626 e raccordo di Pietraperzia.

Da Palermo: prendere E90 fino a Scillato; imboccare SP24 e SS120 in direzione A19; prendere l’uscita per Caltanissetta e proseguire per SS626; uscire a Pietraperzia.

Da Catania: imboccare A19 in direzione Palermo-Catania; uscire a Caltanissetta e 
proseguire per SS626.

17 maggio 2021

La leggenda della Torre negli Iblei

 

Siamo in contrada Santa Rosalia, a metà strada fra Giarratana e Ibla, in un luogo impervio e assediato dalla natura dove, ogni 30 giorni, avvengono fatti misteriosi


Il complesso della torre di San Filippo (foto Rossella Papa)

Se Ragusa Ibla è un incanto, con le sue stazioni di meraviglia che si affacciano tra vicoli e cortili, stretti e intricati come una tela sulla roccia, al passo che guida sino ai fianchi incurvati del Duomo di San Giorgio, e da lì come per miracolo si apre a una delle più sontuose epifanie di bellezza di tutta l’Isola, non da meno è il paesaggio che dalla città muove all’entroterra.

È una Sicilia che abbandona l’idea stessa 
del mare, e non perché la rifiuta, scontrosamente, ma per l’identità fortissima che la campagna definisce a questi luoghi di suggestivi tramonti e di 
prosperose vallate.
 Fra muri a secco, manti di carrubo e ulivi secolari, ecco un pezzo delle Cento Sicilie di Gesualdo Bufalino, e ancora una volta è alla luce del sole che cade l’ombra, e con essa il mistero sbavato delle sue cronache di leggenda.

Siamo in contrada Santa Rosalia, a metà strada fra Giarratana e Ibla, in un luogo impervio e assediato dalla ricca natura che lo avvolge, nelle quiete che irrompe magnifica per gli ozi della solitudine, in un maniero criptico e sibillino. 
È la Torre San Filippo, uno splendido edificio in pietra che ha uno stile insolito, e, per certi aspetti inspiegabile, di certo assai differente dalle residenze nobiliari dell’intorno: ha una pianta labirintica, una perimetrazione eccentrica, uno splendido portone gotico, e una leggenda che fa paura.

Per l’eleganza del progetto e per l’apparato decorativo, questa residenza di campagna
somiglia più a un castello – con una torre d'avvistamento e una chiesa privata al suo interno – che a un caseggiato rurale, pure se ben concepito. Al fascino del luogo, indiscusso, non da meno ha giovato una leggenda riportata – anche sulla stampa – dal professore Gaetano Giovanni Cosentini, che narra di 
una donna inseguita dai cani.

Sembra una novella di Giovanni Boccaccio, o, meglio, proprio l’ottava della quinta giornata del Decamerone, quella che ha per titolo Nastagio degli Onesti, dove si racconta di un giovane che, inoltratosi a passeggiare nella pineta di Classe, assiste a una scena orrenda: una giovane donna inseguita da due mastini e dal fantasma di un cavaliere armato di pugnale, che, raggiuntala, la uccide e ne dà da mangiare il cuore e le interiora ai cani.

Boccaccio è solo una suggestione narrativa, un’intersezione fra i bagagli della memoria, e la Sicilia è terra di fantasie popolari imperscrutabili; e però, in questo caso, la leggenda – a quanto pare – ha trovato conferma nelle strane apparizioni segnalate dai contadini della zona. Per comprendere il confine fra la verità e l’invenzione, bisogna che si inizi dai tempi antichi in cui nella Torre di San Filippo viveva un ricco proprietario con l’unico figlio maschio, colui che avrebbe ereditato le immense ricchezze del feudo.

Pare che il giovane si fosse invaghito di una bellissima ragazza dai lunghi capelli biondi, ricambiato nei suoi sentimenti al punto tale da sposarla e condurla con sé nello splendido maniero, viziati all’amore di un tempo felice. Ma giunto sul posto un affascinante guardiacaccia, la giovane sposa si prese d’inquietudine, e così la tentazione rese gli estranei complici, e i complici amanti.

Approfittando delle assenze per lavoro del marito i due si consumarono nella passione, fino a che uno stalliere non denunciò quel che accadeva quasi sotto i propri occhi al marito ignaro, che, il sette di novembre, fingendo di allontanarsi per i campi, si nascose. Attese, con disumana pazienza, 
l’incontro degli amanti furtivi, e accecato dall’ira per l’orgoglio ferito uccise a morte con un pugnale il giovane guardiacaccia.

Consumato il brutale assassinio, la donna fuggì via terrorizzata mentre il marito scioglieva 
la muta dei cani, 
lanciati a inseguirla come bestie cieche. 
Lei salì sulla Torre, faticando sui gradoni freddi come un’invasata, e raggiunta dai cani inferociti al limite delle pareti merlate, si gettò precipitando nel vuoto. 
Da allora, il sette di ogni mese, secondo quanto pare dicano i contadini della zona, appare l’immagine di una donna dai lunghi capelli biondi che si affretta inseguita da sette cani neri 
come la pece.

Se ne distinguono le sagome, nel tumulto di una folle corsa, che ringhiano fameliche, sull’orlo della torre mentre la donna si butta giù e svanisce a mezz’aria come uno spirito. 
Poco dopo si smorzano i latrati e tutto torna al silenzio, che in certi luoghi è più spaventoso delle urla, perché è soltanto una pausa, un non-tempo che conta inesorabile i successivi trenta giorni affinché tutto riaccada.

Gli improvvidi che si sono azzardati alla Torre, la cui scala d’accesso è in parte distrutta e a forte rischio di crolli, avranno goduto di un paesaggio strabiliante che domina tutta la vallata, talmente bello da far dimenticare il trepestio dei passi affannati della bella giovane, ridotti a una povera eco lontana, come in tutte le campagne di Sicilia in cui i cani abbaiano alla luna prima del sonno.

08 maggio 2021

Strummula siciliana, il gioco di tanto tempo fa.



Strummula

Ormai non si utilizza più ma, fino a circa quarant’anni fa, era uno dei giochi più diffusi: uno di quelli grazie ai quali si potevano trascorrere ore e ore spensierate.

Un gioco umile, passatempo dei bambini era la strummula (Trottola)
Di legno, a forma conica, con in punta (estremità inferiore) un perno d’acciaio, attorno alla trottola viene avvolta, in modo da formare una spirale che va dalla punta di ferro alla parte più alta e larga, una corda che permette, nell’atto del lancio, di far ruotare la trottola.
I ragazzi facevano vere e proprie competizioni per vedere chi riusciva a farla girare più a lungo.
Molti ragazzi si procuravano il legno per la trottola e il falegname col tornio la creava .
Il legno più pregiato era quello d’ulivo, mentre il faggio meno, per la sua fragilità.
Anche a Condove alcuni ragazzi erano veri e propri giocolieri che riuscivano a far ruotare la strummula in ogni luogo; miei compagni di scuola, forse meno bravi sui libri, erano molto invidiati perché avevano un’abilità eccezionale, la loro trottola, una volta lanciata, riusciva a girare sulle mani, sulle ginocchia, sulle punte delle scarpe.
Le modalità di gioco erano diverse ma la più comune consisteva nel disegnare un cerchio sulla terra battuta del diametro di circa 1,5 metri; lanciando la trottola in rotazione all’interno del cerchio, chi riusciva a far uscire la trottola del cerchio continuava il gioco.
Se la trottola dopo aver girato si fermava dentro il cerchio gli altri giocatori
si accanivano a colpirla con la loro.
Ma se una trottola lanciata non riusciva a girare o ad uscire dal cerchio restava ferma a prendere i colpi delle trottole avversarie.
Si scagliava la propria trottola su quelle ferme nel cerchio, facendo in modo che il perno, agendo come un trapano, spaccasse il legno.
Il perno dello sconfitto rappresentava l’ambito trofeo.
A volte succedeva che qualche trottola fragile si spaccava e quindi rabbia e lacrime del perdente e le risate degli altri, per non correre simili rischi si ricorreva a trottole di legno molto duro.

03 maggio 2021

"Cu lu tuppu o senza tuppu": la brioscia siciliana è anche una dichiarazione d'amore


Se avete voglia di far sorridere qualcuno in questo momento storico così difficile e complicato, 
ecco per voi la storia di una ricetta utile a far tornare il buonumore 


Brioche col "tuppo"   

"In Italia il cibo è una forma d’arte, in Sicilia una religione", ha scritto Rick Steves. Ed effettivamente non ha tutti i torti. Soprattutto se pensiamo ai litigi che certi gesti a tavola possono provocare.

Uno su tutti? Rubare il “tuppo” al nostro commensale.

Guai a provarci con un siciliano: basta una sfrontatezza del genere, fatta con leggerezza, per distruggere amicizie storiche o scatenare guerre familiari in men che non si dica. 
D’altronde, che sia granita o gelato ad accompagnare la brioscia, mangiarli inzuppandovi il “tuppo” 
non è forse un’azione naturale che si tramanda di generazione in generazione nei secoli dei secoli? 

Da quanti non è dato saperlo con precisione, ma c’era un tempo in cui le famiglie aristocratiche chiedevano ai propri cuochi nuovi e sorprendenti piatti. 
E così leggenda vuole che il cuoco di una non precisata famiglia nobile, alla richiesta di qualcosa di morbido e leggero dove spalmare la marmellata a colazione, inventò proprio la “brioscia” siciliana.

Una ricetta così deliziosa - sfidiamo chiunque a dire il contrario - che in breve tempo non solo conquistò la famiglia, ma si diffuse un po’ ovunque diventando una delle ricette tipiche e più conosciute della nostra isola. 
Attenzione, però, a non chiamarla “brioche” perché, al contrario di quanto si possa pensare, sono stati i francesi a prendere in prestito il nome siculo e a trasformarlo: non lasciamo il merito delle nostre deliziose creature agli altri.

Se c’è una cosa che dobbiamo ai cugini francesi, piuttosto, è la parola dialettale “tuppo”, che indica l’acconciatura tipica delle danzatrici: lo chignon. In normanno, infatti, lo chignon si chiamava ‘toupin’, in gallico ‘toupeau’ e in francesce moderno ‘toupet’, da cui il nostro siciliano ‘tuppo’.

Ma c’è di più. Secondo quanto tramandato da uno 
scioglilingua della nostra tradizione, la forma tipica della brioscia sarebbe legata a una travagliata storia fra due giovani, il cui amore fu ostacolato dalla madre della ragazza che portava lunghi capelli raccolti sulla nuca.

La fanciulla, per il dolore e come atto di ribellione, avrebbe perciò tagliato la chioma: quella dote che la rendeva irresistibile agli occhi di tutti, compreso il suo innamorato. 
Il gesto commosse a tal punto la madre che finalmente acconsentì al fidanzamento.

Ed è per questo che si dice: «Cu lu tuppu un t’appi, senza tuppu t’appi. 
Cu lu tuppu o senza tuppu, basta chi t’appi e comu t’appi t’appi» (con i capelli raccolti sulla nuca non ti ho avuta, senza capelli raccolti sulla nuca ti ho avuta. Con i capelli raccolti o senza capelli raccolti, basta che ti abbia avuta, comunque ti abbia avuta).

Poteva non entrarci in qualche modo l’amore, anche se alla lontana? D’altronde, se c’è una cosa certa è che donare il “tuppo” della briosca è la più grande dimostrazione d’amore, o dichiarazione a seconda dei casi, che si possa fare a una persona.

Avete voglia di far sorridere qualcuno in questo momento storico così complicato? Avete trovato la ricetta per fare tornare il buonumore.

Biagia - Silvana ❤ La Storia di Pozzallo_3 Silvana La Pira_3

                         - Silvana La Pira -

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