28 febbraio 2021

Il modicano che vinse sul castigo di Dio


Accorrevano da tutta Europa alla Contea di Modica, in quella prima metà del ‘700. Cavalieri, Principi, Re. Persino Giuseppe I d’Asburgo, imperatore del Sacro Romano Impero, pare si fosse lasciato attrarre dalle virtù del più fulgido tra i feudi della Sicilia. Chissà se ad accogliere i visitatori – e a inebriarne i sensi – ci fossero già anche i lingotti della prelibata ‘ciucculatta muricana’, oltre agli incanti della natura e dei monumenti; ma il fatto era che molti, di quei gentiluomini, si trovavano praticamente costretti a scendere in incognito, e quindi a rinunciare a tanto ben di Dio. Altro che viaggio di piacere; venivano a curarsi la sifilide, il male e la vergogna del secolo!




Eh sì. La Contea, in quegli anni, aveva acquisito notorietà anche in campo sanitario, per quanto si trattasse di un ambito della medicina che richiedeva il massimo riserbo. E il merito di questo successo, guarda caso, apparteneva a un uomo che faceva proprio della ritrosia la sua caratteristica, nell’ombra e nel silenzio degli ambienti che frequentava. Cagionevole di salute, poco avvezzo alla vita sociale, se ne stava chiuso a studiare per ore, divorava tutti i libri che gli capitavano tra le mani, poi si adoperava a mettere in pratica ciò che aveva appreso da autodidatta. Così nella filosofia, come nella letteratura o nelle scienze; indifferentemente. Fin quando – a furia di osservare e sperimentare – trovò un metodo che potesse funzionare nella cura della sifilide, e un dispositivo in cui applicarlo: la botte.



Tommaso Campailla

Il protagonista di questa sorta di magia si chiamava Tommaso Campailla, un nome che la storia modicana avrebbe accolto tra quelli dei suoi uomini illustri. Aristocratico anch’egli – grazie al diploma nobiliare concesso alla famiglia dall’imperatore Carlo V, a metà del Cinquecento – era nato il 6 aprile del 1668, proprio nel centro di Modica. Ancora ragazzino, era stato spedito in campagna dal padre, preoccupato più del suo sviluppo fisico che di quello intellettuale; Tommaso dovette così attendere i sedici anni di età per dare sfogo alla sua naturale inclinazione, libero di trasferirsi a Catania per studiare Giurisprudenza. Evasione breve e illusoria.


            Palazzo Campailla a Modica

La morte del padre – dal quale ereditava un buon patrimonio – lo riportò presto nella sua Modica. Non più scuola, e neanche scorribande per i campi; tra le mura domestiche, e tutt’al più all’interno dei confini della città, sarebbe rimasto per tutta la vita. La filosofia fu il suo primo amore, rincorrendo i princìpi di Cartesio; poi si rivolse alla letteratura, e nel mettere insieme nozioni dell’una e dell’altra vennero fuori poemi filosofici; tra cui ‘L’Adamo’ (dedicato all’uomo primordiale), pubblicato in due parti, nel 1709 e nel 1723, più volte ristampato anche fuori dalla Sicilia, laddove lui non si spingeva mai. Se mai erano gli altri a raggiungerlo, mossi dalla curiosità di conoscerlo e di dialogare, come fece una volta il filosofo irlandese George Berkeley; o come avrebbero volentieri fatto alcuni appassionati di psicologia, per sentire dalla sua viva voce – che a quanto pare balbettava un po’ – le teorie sul rapporto tra comportamenti e sogni, che anticipavano di secoli quelle di Sigmund Freud.


‘L’Adamo’, poema filosofico di Tommaso Campailla dedicato all’uomo primordiale

Il passaggio alle scienze avvenne in maniera alquanto disinvolta, anche perché i suoi metodi di indagine, in assenza di una impostazione scolastica, scivolavano sul terreno di un certo empirismo. Il che comunque non gli impediva di essere concreto, affidandosi per esempio all’osservazione al microscopio di tessuti biologici. A spingerlo poi nell’intricato campo della medicina – dove finì col muoversi a suo piacimento – fu soprattutto il bisogno di curare i propri malanni, procurandosi da solo i rimedi che potessero risultare efficaci.


Una delle stanze del museo Medico " Tommaso Campailla "di  Modica

Fu così che, cercando medicamenti che alleviassero in qualche modo dolori e scricchiolii del suo apparato scheletrico, cominciò ad impratichirsi nell’utilizzo del mercurio, sostanza già nota per la sua azione benefica in vari stati patologici. C’era la sifilide tra questi: se la trovò davanti con la sua sagoma spettrale, e decise di sfidarla, stavolta per il bene di tutti. Malattia infettiva a prevalente trasmissione venerea, la sifilide (o lue) aveva già da tempo seminato il terrore tra varie popolazioni: per la sua gravità, per la mancanza di adeguate terapie e, non ultima, per la maniera assolutamente immorale con la quale veniva contratta. Una infamia da nascondere, agli occhi della società; un vero e proprio castigo di Dio, per chi credeva a certe superstizioni.


Altra stanza del Museo Medico

La tesi secondo cui sarebbero stati i marinai di Cristoforo Colombo a trasportarla in Europa, al ritorno dalle Americhe, non ha mai avuto piena conferma. Di certo, i rapporti sessuali con partner sconosciuti, e con poca osservanza dell’igiene, stavano alla base del contagio. La prima vera epidemia si era sviluppata in seguito alla occupazione di Napoli, nel 1495, da parte del Re francese Carlo VIII, le cui truppe erano composte per lo più da mercenari senza ritegno; i quali, incapaci di resistere a certi istinti, avevano permesso al treponema pallidum – l’agente eziologico della malattia – di penetrare nel loro organismo, spargendolo poi lungo la strada di risalita in tutta Italia, e da qui in tutta Europa. La definizione iniziale di ‘mal francese’ (o di ‘mal gallico’) era sembrata a tutti ovvia e priva di malizia; tranne ai francesi – e ti pareva – che dal loro punto di vista si sentivano piuttosto vittime del ‘mal napolitaine’.


Carlo VIII RE di Francia entra a Napoli (1945 )

Di ‘metodo francese’, tuttavia, si parlava, riferendosi a quello universalmente più utilizzato nella terapia della sifilide, che si avvaleva delle cosiddette stufe mercuriali. Si trattava di una sorta di capsula all’interno della quale veniva rinchiuso il paziente, seduto su uno sgabello, testa fuori; nel braciere della stufa veniva versato il cinabro (minerale contenente solfuro di mercurio), che per sublimazione faceva esalare vapori del principio attivo, assorbiti dalla pelle in piena sudorazione.


Particolare di una antica stampa rafficurante una " Botte " per la cura della sifilide

Qualche effetto benefico c’era; ma, per bene che andasse, il mercurio così introdotto si limitava a fare regredire i sifilomi, cioè le tipiche lesioni cutanee, mentre del tutto inutile si rivelava nel caso in cui la malattia avesse già superato anche solo il primo dei quattro stadi nei quali poteva manifestarsi, invadendo organi e apparati. La trovata di Campailla – geniale nella sua apparente semplicità – fece compiere un importante passo avanti in questo tipo di trattamento. Il riflessivo Tommaso pensò a come rendere anche inalabili quei vapori di mercurio, favorendone in tal modo l’assorbimento attraverso l’apparato respiratorio: bastava aggiungere l’incenso nel braciere, così da stemperare e ridurre la tossicità.


Vecchia boccetta di medicamento a base di mercurio

A quel punto, pure la testa del paziente poteva stare chiusa all’interno, il che comportava una modifica nella struttura e nella forma di quelle camere: eliminata l’ampia apertura superiore, si lasciavano solo due piccoli fori alle estremità. Così fatte, somigliavano proprio a delle botti! Sono ancora là a fare bella mostra di loro, le ‘botti’ del Campailla; a Modica, nella centralissima Via Roma, presso i locali del vecchio Ospedale Santa Maria della Pietà.


L'ex Ospedale Campailla, oggi sede del Museo della Medicina

Li custodisce un Museo della Medicina, dove si può ammirare anche un teatro anatomico, uno studio medico, una esposizione di antichi strumenti operatori. Nella cosiddetta Stanza delle botti, l’atmosfera del passato si carica di suggestione, fino a poter creare anche un certo turbamento. Eccoli, questi camerini in legno, con copertura a volta, una porticina d’accesso; larghi 80 cm, alti 1 metro e 34, appena sufficienti a dare spazio a un paziente, che se ne stava là seduto dai dieci ai venti minuti, a seconda dello stadio della sua malattia.


La stanza delle 'Botti' di Campailla per curare la Sifilide

Tommaso cominciò a sperimentare le sue botti dal 1698, ancora trentenne; forse fu il primo a stupirsi dei risultati vantaggiosi che si ottenevano, e che spesso portavano a vere e proprie guarigioni nella sifilide. Si narra di individui in stato di cachessia, che dopo essersi più volte rinchiusi nella botte ne uscivano rinvigoriti, nel fisico e nel morale; facile, a quel tempo, gridare al miracolo. Il tam tam del passaparola – seppure sussurrato con discrezione – sparse ben presto la voce oltre i confini, della Sicilia e della Penisola, raggiungendo i vari stati dell’Europa.


Stampa di una malata di Sifilide

Così Modica, capoluogo della contea omonima, diventò meta di segreto pellegrinaggio da parte di quei nobili e cavalieri che, oltre alla ripugnante malattia, avevano anche un’onta da cancellare. Non fu una gloria effimera. Le Botti del Campailla trovarono seguaci e ampi consensi. Dopo che a Modica l’Ospedale Santa Maria della Pietà venne convertito (termine quanto mai attuale!) nel Sifilicomio Campailla (poi divenuto Ospedale Campailla), a Palermo fu istituito un Sanatorio Campailla, a Roma si costruì una Botte di Modica, a Milano si utilizzarono botti di vetro di simile concezione. La stessa Parigi – capitale del ‘metodo francese’ – accettò la novità ‘siciliana’, riservando appositi stabilimenti, e allargando il campo di impiego anche alle malattie reumatiche e neurologiche.


La Contea di Modica nel XVIII Secolo

Il progresso, ovviamente, era destinato a relegare il contributo di Campailla in un angolo della storia. Sarebbe stato poi messo al bando un tale utilizzo del mercurio, a causa del suo effetto cancerogeno, che lui di certo non poteva conoscere. Così come non poteva immaginare che sarebbe arrivata un giorno – ma di anni ne dovettero trascorrere duecentocinquanta – una muffa chiamata penicillina, in grado di stanare i treponemi circolanti nel sangue delle persone affette da sifilide; malattia peraltro non ancora scomparsa.


Una vecchia boccetta di Penicillina

Il buon Tommaso non avrebbe potuto fare di più. Era entrato solitario nel mondo della filosofia, della letteratura, delle scienze e della medicina; aveva raccolto insegnamenti e restituito frutti del suo ingegno creativo. Titoli di studio, nessuno; desiderio di conoscenza e voglia di rendersi utile al prossimo, in quantità esagerata. Tutto questo senza clamori; quasi senza apparire. La sua casa e la sua famiglia (moglie e figli) delimitavano lo spazio della sua quotidianità. Visse così fino alla fine dei suoi giorni, a 72 anni, nel 1740. Modica, da allora, si è ritrovato in mano un patrimonio da difendere. Al pari della prelibata cioccolata.

Nunzio Spina, 63 anni, è nato a Catania. Medico, giornalista collaboratore del quotidiano “La Sicilia”, si è specializzato in ortopedia a Milano. Ha poi esercitato la professione ospedaliera, prima a Ponte San Pietro (BG), poi ad Aosta e infine a Macerata, dove attualmente risiede con la famiglia. Da circa quindici anni si dedica, nel tempo libero, alla pubblicazione di libri e articoli sulla storia dell’ortopedia e sulla storia del basket, coniugando così la passione per la disciplina sportiva praticata negli anni catanesi.




22 febbraio 2021

Si Maritau Rosa

 


Si maritau Rosa è una celebre canzone popolare siciliana 
Si tratta di un canto della tradizione, diffuso in diverse parti dell’Isola, che assume testi leggermente diversi a seconda dell’area di riferimento. Probabilmente l’avrete sentita tutti, almeno una volta. 
Il testo fa riferimento alla condizione di una giovane che non riesce a trovare marito. 
Una condizione che, raggiunta una determinata età, in alcune epoche del passato era praticamente inaccettabile. 
 A parlare, dunque, è la triste protagonista. 
Intorno a lei la primavera è in fiore e gli uccelli volano spensierati, 
ma il suo animo soffre. 
Nonostante tanti bei giovanotti passino sotto la sua finestra, 
nessuno le fa la corte. 
Arriva, dunque, la spiegazione di tanto penare: “Mi vogghiu fari zita, mi vogghiu marità”, canta, spiegando di volersi fidanzare e sposare anche lei, così come hanno fatto Rosa, Saridda e Pippinedda. 
 Nel corso degli anni, questa canzone è stata interpretata da molti artisti, tra i quali la grande Rosa Balistreri. 
Anche il tenore Roberto Alagna ha regalato al pubblico la sua versione. 
Vi proponiamo uno dei testi disponibili: 
non si tratta dell’unico in circolazione, quindi potreste riscontrare alcune differenze.

                                                            Si maritau Rosa Testo

 Vinni la primavera 
li mennuli su ‘nciuri 
a mia ‘nfocu d’amuri 
lu cori m’addumò 
l’aceddi s’assicutunu 
facennu discurseddi 
di quanti cosi beddi 
ca mi fannu ‘nsunnar 
si maritau rosa 
Saridda e Pippinedda 
e iu ca sugnu bedda mi vogghiu marità 
di quanti beddi giuvini 
ca passunu di sta strada 
nuddu di na taliata 
digna la casa me 
e iu tra peni e lacrimi 
distruggiu la me vita 
mi vogghiu fari zita 
mi vogghiu marità 
si maritau Rosa 
Saridda e Pippinedda 
e iu ca sugnu bedda 
mi vogghiu marità   



La vita con un marittimo-

 


Parole di un marittimo:
 " Essere un marittimo non è facile, e non è un 
lavoro adatto a tutti. 
Bisogna essere forti, coraggiosi, intenzionati, 
volenterosi e consapevoli a cosa si va in contro. 
Essere marittimo vuol dire essere un Uomo, 
perché tutti pensano che il mare insegni un 
mestiere, in realtà insegna ad essere Uomo, a 
saper affrontare la vita in tutte le sue sfaccettature. 
Durante la sua vita, un marittimo, verserà sempre 
delle lacrime: 
• Lacrime di tristezza e dolore quando 
imbarcherà e si troverà costretto a lasciare i 
propri cari... 
• Lacrime di solitudine quando si troverà a bordo 
solo e sarà consapevole di trovarsi lontano da 
tutti e da tutto...
 • Lacrime di gioia quando sbarcherà e 
riabbraccerà i propri cari... 
• Lacrime di orgoglio e di soddisfazione perché 
sarà orgoglioso di aver fatto carriera, e così potrà 
dare un futuro alla famiglia grazie ai propri 
sacrifici... 
• E infine lacrime di delusioni per gli amori e 
amici che perderà. 
Ma nonostante tutto ciò, un marittimo si dà forza
 e cerca di andare avanti guardando i lati positivi! 
Chi non è del campo non sa cosa si è costretti 
sopportare durante i mesi di imbarco; 
Stress e sonno perso che si accumulano man 
mano che giorni passano, aver a che fare con 
gente a volte prepotente ed egoista e dover 
tenersi tutto dentro per evitare guai e problemi, a 
volte capita di perdere dei cari mentre si è in alto 
mare e non li si può salutare per un'ultima volta, 
amori che ti lasciano da un giorno all'altro perché 
definitisi troppo deboli, però ti sostituiscono con 
uno qualsiasi. 
Infatti amare un marittimo non è facile per 
niente. 
Ci vuole una ragazza/moglie al suo fianco che gli
 sarà di aiuto,incoraggiamento e conforto e che 
dovrà avere un cuore grande che sa 
comprendere i sacrifici, un cuore forte per 
reggere al dolore del distacco e separazione, ma 
soprattutto un cuore pieno di amore che non lo 
lascerà mai e non lo tradirà neanche nei momenti 
deboli... 
Ma trovando una persona così, è un amore, che 
nonostante tutto, può crescere e può andare 
lontano raggiungendo i propri obiettivi, si potrà 
essere davvero fortunati. 
La gente ignorante, pensa che, un marittimo
 abbia un rapporto in ogni porto, ma non sanno 
che non si ha tempo materiale per farlo, perché 
chi ha una responsabilità addosso è raro che 
possa scendere a terra anche solo per bersi una 
birra, piuttosto si preferisce un'ora in più di 
riposo. 
A prescindere dal fatto che un vero Uomo non 
tradisce la sua Donna, indipendentemente se la si 
ha vicina o a migliaia di km di distanza, ma la 
rispetta in tutti i modi e per quanto riguarda il 
marittimo, apprezzerà i sacrifici che la propria 
donna condivide con lui solo per amore di 
passare il resto della loro vita insieme.. 
Perché il valore di un sentimento così forte è la 
somma dei sacrifici che si è disposti a fare per 
esso! 
Quello di cui ha bisogno un uomo di mare, è 
amore corrisposto, forte e vero. 
Infine ci saranno anche le soddisfazioni: 
• Trascorre 24 ore su 24 per 2-3 mesi, ogni 4 mesi 
di assenza, con la propria famiglia e amici... 
• Avere sempre una sicurezza economica(che 
oggi come oggi è difficilissimo per molte 
famiglie). 
• Garantire un futuro ai propri figli e non far 
mancare mai niente a loro... 
• Capire cosa vuol dire veramente la parola 
"felicità" quando dopo mesi di imbarco si 
ritornerà di nuovo su terra ferma. 
Tutto questo vuol dire essere un MARITTIMO, ed 
io sono fiero di esserlo. 
Alla fine senza i sacrifici non si ottiene nulla, da 
qui si potrà vedere chi veramente ti apprezza e 
rimarrà sempre al tuo fianco anche se si è spesso 
lontani da tutto e tutti. 
Quindi con queste parole, vorrei far capire alle 
persone che non sono di settore di non 
sottovalutare il nostro lavoro, ma di apprezzarlo. 
E di non "buttare giù" le persone a noi care con 
frasi di cattivo gusto, senza neanche 
generalizzare. 
UN AUGURIO A TUTTI I MARITTIMI.🚢⚓️💙

16 febbraio 2021

"La Reliquia "

 


di Antonio Carmelo Monaca 

 Tanti anni fa un piccolo prete ebbe l'ardire di chiedere al potente cardinale Siri, arcivescovo di Genova, una reliquia. 
Si trattava di una richiesta importante. 
Il piccolo prete chiedeva una reliquia, anche piccola, per la sua Comunità Parrocchiale. 
Forse anche per il sostegno di un altro prete pozzallese, un frate in ottimi rapporti con la Curia genovese, p. Tarcisio Bellaera o.f.m. e dello zio mons. Matteo Gambuzza, quella reliquia fu donata. 
Da Mira (Grecia) a Genova, ad opera del crociato Guglielmo Embriaco, fino a Pozzallo. 
Dall'urna che contiene le reliquie del corpo di San Giovanni Battista il cardinale Giuseppe Siri autorizzò il prelievo di un pezzettino di osso adesso custodito nel braccio argenteo conservato nella chiesa parrocchiale di San Giovanni Battista in Pozzallo che la città onora come suo Patrono. 
Il piccolo prete, don Sebastiano Palumbo, riuscì in un impresa difficile. Genova, "La Superba", legata a Pozzallo da rapporti commerciali, da tragedie del mare e importante riferimento per la marineria pozzallese, con questo "regalo", ha ancora più stretti interessi con la "piccola città".

07 febbraio 2021

A due passi dalla Scala dei Turchi

 


A due passi dalla Scala dei Turchi: leggenda di Capo Rossello. 

Alcune delle leggende siciliane più belle raccontano di amori sfortunati, ma sono ugualmente suggestivi racconti da leggere. 
Tra le leggende agrigentine più famose, c’è quella che riguarda gli scogli di Capo Rossello, soprannominati ‘U Zitu e ‘A Zita, ovvero “il fidanzato e la fidanzata”. 
A due passi dalla candida scogliera della Scala dei Turchi di Realmonte, prese vita la loro vicenda. 
Non si finisce mai di scoprire le leggende della Sicilia. 
Ognuna delle province dell’isola custodisce antichi racconti avvolti dal mistero. 
Facciamo tappa nell’agrigentino, per raccontare una storia che ricorda quegli amori sfortunati alla Romeo e Giulietta (ma naturalmente in salsa siciliana). 
La leggenda di Capo Rossello è legata a due scogli conosciuti come ‘U Zitu e ‘A Zita, che emergono dal mare di Realmonte. 
Quella stessa Realmonte resa celebre dalla Scala dei Turchi. 
Scopriamo insieme le vicende di questi due amanti sfortunati: si dice che, ancora oggi, in momenti particolari si possano sentire i loro lamenti. 
Si racconta Rosa, figlia del signore di Muntriali (nome dialettale di Realmonte), un giorno si innamorò di un giovane aitante e attraente, ma di umili origini. 
Peppe, questo il nome del giovane, ricambiò il suo amore. 
Incoraggiata dalla reciprocità del sentimento, Rosa affrontò il padre, confessandogli l’amore per Peppe. 
Il padre, visto il suo ceto più elevato, non solo si rifiutò di benedire l’unione, ma minacciò anche la figlia di rinchiuderla nel convento delle Suore Orsoline di Agrigento. 
La ragazza non si fece certo intimorire. 
Continuò a incontrare di nascosto Peppe e, ogni volta che lo lasciava, cadeva nello sconforto. 
Il padre, notando che la fanciulla era sempre più sciupata e triste, chiese l’aiuto di un medico. 
Il dottore appurò che la ragazza stava bene e le prescrisse solo delle passeggiate ristoratrici. 
‘U Zitu e ‘A Zita di Capo Rossello Quando incontrava Peppe, Rosa era sempre accompagnata dalla balia, fedele al padre e concorde nel non accettare l’unione. 
Un giorno, però, il padre scoprì tutto e decise di spedire rosa in un lontano convento palermitano. 
I due innamorati elaborarono allora un tragico piano. 
Dato che la vita voleva separarli, allora la morte li avrebbe uniti. 
Si diedero appuntamento a notte fonda e si buttarono insieme in mare, dalla punta di Monte Russello, mettendo fine alle loro esistenze 
Qualche mese dopo la loro morte, secondo la leggenda, proprio dove si erano buttati, spuntarono due scogli. 
Quegli enormi massi, legati da una sottile lingua di roccia, divennero testimoni di un amore infelice. 
Nelle notti di luna piena, i pescatori che si trovino a passare dalle parti della Rocca Gucciarda, possono sentire il canto lamentoso di una donna. Le voci popolari vogliono che questa voce appartenga proprio a Rosa. Così la leggenda di Capo Rossello è diventata parte della realtà.

06 febbraio 2021

La festa di San Biagio in Sicilia

 


La festa di San Biagio in Sicilia e i "panuzzi" dolci: c'è chi usa una formina vecchia più di 100 anni In diversi paesi si usa portare in Chiesa e fare benedire i "panuzzi". 
Ci sono quelli salati di cui vi abbiamo raccontato e ci sono quelli dolci. Una tradizione che continua nel tempo I "panuzzi" dolci di san Biagio (foto di Grazia Mantia) San Biagio è protettore della gola. 
Era medico e vescovo armeno vissuto nel III secolo d.C. 
Secondo la tradizione cristiana e quella ortodossa, mentre veniva accompagnato al patibolo durante le persecuzioni contro i cristiani una donna gli portò il figlio che stava soffocando per una lisca di pesce conficcata in gola, il santo lo benedisse e il bambino si salvò. 
Per questo miracolo il medico venne fatto santo e dichiarato protettore della gola. 
 Magari non tutti sanno che è une festa sentita anche in diversi paesi della Sicilia. 
Anche, sì, perchè certamente è una giornata della tradizione milanese in cui si usa mangiare l’ultimo panettone della stagione o l’ultima fetta. 
La storia che risale a questa tradizione è legata più a una leggenda popolare che narra di "una donna che appena prima di San Biagio è protettore della gola. 
Magari non tutti sanno che è une festa sentita anche in diversi paesi della Sicilia. Anche, sì, perchè certamente è una giornata della tradizione milanese in cui si usa mangiare l’ultimo panettone della stagione o l’ultima fetta. 
La storia che risale a questa tradizione è legata più a una leggenda popolare che narra di "una donna che appena prima di prima di Natale, si recò da tal Frate Desiderio per fare benedire il panettone che aveva preparato per la sua famiglia. 
Ill frate, che in quel momento era mpegnato, le chiese di lasciargli il dolce e di passare a prenderlo dopo qualche giorno, perché lo avrebbe benedetto appena avesse avuto il tempo. 
Solo dopo Natale, però, il prelato si accorse di avere ancora in canonica il panettone. 
Lo aveva dimenticato del tutto. 
Essendo ormai secco, il frate pensò che anche la donna se ne fosse dimenticata e quindi lo mangiò nei giorni successivi, per non buttarlo. Accadde però che il 3 febbraio, giorno di San Biagio, la donna si presentò dal frate per avere indietro il suo panettone benedetto. 
Frate Desiderio, dispiaciuto per averlo già mangiato, si recò comunque in canonica a prendere il recipiente vuoto da restituire alla donna. 
Ed è qui che si compì "il miracolo": c’era un panettone grande ben due volte quello che gli era stato lasciato a dicembre. 
Da allora l’usanza è quella di consumare un panettone, definito appunto di San Biagio, proprio in questo giorno. 
Ma torniamo in Sicilia. Dicevamo che in diversi paesi si usa portare in Chiesa e fare benedire i "panuzzi". 
Ci sono quelli salati di cui vi abbiamo raccontato e ci sono quelli dolci. 
Si tratta di un biscotto di pasta frolla non molto zuccherato o a forma di cerchio tipo gola oppure con l'immagine del Santo. 
Quelli che vi proproniamo sono questi ultimi realizzati da Grazia Mantia con una formina con l'immagine di San Biagio. La formina ha più di 100 anni.

02 febbraio 2021

Le vittime del disastro della petroliera < MELIKA >

 

                                          Petroliera Melika


                                       Raffaele Auteri


Due Pozzallesi tra Le vittime del disastro della petroliera "Melika,,

 Tre loro concittadini, tra cui l'allievo ufficiale Giardina, figlio del sindaco,sono riusciti a salvarsi 
 La cittadinanza di pozzallo, dopo una lunga e dolorosa attesa, ha appreso con vivo cordoglio la scomparsa di due suoi figli, nel grave sinistro toccato alla petroliera < MELIKA >, venuta in collisione con la petrtoliera francese < Fernard Gilabert > nelle acque del golfo di Oman 
nell'Oceano Indiano. 
Gli scomparsi sono : 
Raffaele Auteri, di 50 anni, marinaio 
Giuseppe Carnemolla di 24 anni, garzone di mensa. 
Dei 45 marinai dell'equipaggio della  < Melika > cinque erano pozzallesi, si sono salvati l'allievo ufficiale Emanuele Giardina, di 22 anni, figlio del sindaco di Pozzallo, Giovanni Ligresti di 36 anni, marinaio, e Michele Roccasalvo di 26 anni garzone di cucina; quest'ultimi sposati con figli. 
Peppino Carnemolla orfano di padre, si era assunto il compito di aiutare la famiglia, ma in ogni suo imbarco il destino gli si manifestava sempre più avverso. 
Questo viaggio, che avrebbe dovuto essere l'ultimo, gli ha tolto la vita. 
Raffaele Auteri, detto , vecchio lupo di mare, ha avuto la stessa sorte del padre, Giovanni, e dei fratelli Tommaso e Salvatore, morti nelle acque di Candia ( Grecia ), a causa di un incendio sprigionatosi a bordo. 
Nel cuore del popolo di Pozzallo è sceso un profondo dolore perchè non persiste una famiglia che non abbia nel cuore suo figlio.

01 febbraio 2021

I strati unni caminu..


di Giuseppe Galfo

Ne strati unni caminu s'incontrunu cientu manu chidda fina ro dutturi e chidda lurda ro viddanu genti sula..accumpagnata..ncapu o sceccu oppuri apperi 'n centru i strata ne banchini o misi i lato a cantineri. 
Ne strati unni caminu c'è sempri ummira frisca sutta e macci i miennila ri carrua o ri virdisca sunu macci antichi comu sta terra critusa sturciuti arruppati vacanti e che purtusa Terra..terra mia...terra ri mari unni finisci l'acqua spunta u suli terra ri turmientu fai scappari ma cui ti lassa..cà si scorda u cori. 
I strati unni caminu su ri pruvulazzu e petri tra scrusciu ri catini e trivulu ri matri si senti cu vannià tra li mura stisi o suli mentri cu avi ancora ossa li metti a ripusari. Ne strati unni caminu c'è cui s'ammuccia li stenti e sfoga la so ragghia sutta a vara ri li santi mentri u parrucu cumanna "in prucissioni.. tutti 'n fila" a chiesa resta o scuru..nun sadduma na cannila. Terra ..terra bedda.. amata terra quanta genti ca vulissi ma nun parra terra ri gelsuminu e lustru i luna c'è cui arriri e c'è cui cianci a la furtuna Pi strata ncontru genti ca facci comu fezza travagghiunu ri lingua e fanu assai scumazza t' abbattunu la spadda mi fariti curagghiu comu ci runi i spaddi rapunu u curtigghiu. Ne strati unni caminu s'affaccia nu jardinu unni crisci na racina pi nu vinu truoppu buonu pa missa nu parrinu c'appuzzau lu mussu e si persi iddu a tuonica cu tuttu u crucifissu Terra...bedda terra...terra santa cui sordi n'avi picca sempri i cunta cu mangia assai puoi ci lori a panza pi cui nun mangia nenti è pinitenza Ne strati unni caminu c'è cu si voli beni la genti balla e canta pi scurdarisi li peni vulissi sulu jucari a carti nterra cu la sorti ma idda teni u jocu e a lu piettu i stringi forti. I strati ri sta terra su fatti ri spiranza e portunu tutti quanti o puntu ri partenza unni tuttu nasci fra terra mari e suli unni ci lassi a rarica ci truovi puri u cori. terra.. mi parturisti matri terra pirdunulu stu figghiu ca ti sparra si turmenta e ti vulissi pani si turmenta ma ti voli beni.

Biagia - Silvana ❤ La Storia di Pozzallo_3 Silvana La Pira_3

                         - Silvana La Pira -

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