Accorrevano da tutta Europa alla Contea di Modica, in quella prima metà del ‘700. Cavalieri, Principi, Re. Persino Giuseppe I d’Asburgo, imperatore del Sacro Romano Impero, pare si fosse lasciato attrarre dalle virtù del più fulgido tra i feudi della Sicilia. Chissà se ad accogliere i visitatori – e a inebriarne i sensi – ci fossero già anche i lingotti della prelibata ‘ciucculatta muricana’, oltre agli incanti della natura e dei monumenti; ma il fatto era che molti, di quei gentiluomini, si trovavano praticamente costretti a scendere in incognito, e quindi a rinunciare a tanto ben di Dio. Altro che viaggio di piacere; venivano a curarsi la sifilide, il male e la vergogna del secolo!
Eh sì. La Contea, in quegli anni, aveva acquisito notorietà anche in campo sanitario, per quanto si trattasse di un ambito della medicina che richiedeva il massimo riserbo. E il merito di questo successo, guarda caso, apparteneva a un uomo che faceva proprio della ritrosia la sua caratteristica, nell’ombra e nel silenzio degli ambienti che frequentava.
Cagionevole di salute, poco avvezzo alla vita sociale, se ne stava chiuso a studiare per ore, divorava tutti i libri che gli capitavano tra le mani, poi si adoperava a mettere in pratica ciò che aveva appreso da autodidatta. Così nella filosofia, come nella letteratura o nelle scienze; indifferentemente. Fin quando – a furia di osservare e sperimentare – trovò un metodo che potesse funzionare nella cura della sifilide, e un dispositivo in cui applicarlo: la botte.
Tommaso Campailla
Il protagonista di questa sorta di magia si chiamava Tommaso Campailla, un nome che la storia modicana avrebbe accolto tra quelli dei suoi uomini illustri. Aristocratico anch’egli – grazie al diploma nobiliare concesso alla famiglia dall’imperatore Carlo V, a metà del Cinquecento – era nato il 6 aprile del 1668, proprio nel centro di Modica.
Ancora ragazzino, era stato spedito in campagna dal padre, preoccupato più del suo sviluppo fisico che di quello intellettuale; Tommaso dovette così attendere i sedici anni di età per dare sfogo alla sua naturale inclinazione, libero di trasferirsi a Catania per studiare Giurisprudenza. Evasione breve e illusoria.
Palazzo Campailla a Modica
La morte del padre – dal quale ereditava un buon patrimonio – lo riportò presto nella sua Modica. Non più scuola, e neanche scorribande per i campi; tra le mura domestiche, e tutt’al più all’interno dei confini della città, sarebbe rimasto per tutta la vita.
La filosofia fu il suo primo amore, rincorrendo i princìpi di Cartesio; poi si rivolse alla letteratura, e nel mettere insieme nozioni dell’una e dell’altra vennero fuori poemi filosofici; tra cui ‘L’Adamo’ (dedicato all’uomo primordiale), pubblicato in due parti, nel 1709 e nel 1723, più volte ristampato anche fuori dalla Sicilia, laddove lui non si spingeva mai. Se mai erano gli altri a raggiungerlo, mossi dalla curiosità di conoscerlo e di dialogare, come fece una volta il filosofo irlandese George Berkeley; o come avrebbero volentieri fatto alcuni appassionati di psicologia, per sentire dalla sua viva voce – che a quanto pare balbettava un po’ – le teorie sul rapporto tra comportamenti e sogni, che anticipavano di secoli quelle di Sigmund Freud.
‘L’Adamo’, poema filosofico di Tommaso Campailla dedicato all’uomo primordiale
Il passaggio alle scienze avvenne in maniera alquanto disinvolta, anche perché i suoi metodi di indagine, in assenza di una impostazione scolastica, scivolavano sul terreno di un certo empirismo. Il che comunque non gli impediva di essere concreto, affidandosi per esempio all’osservazione al microscopio di tessuti biologici. A spingerlo poi nell’intricato campo della medicina – dove finì col muoversi a suo piacimento – fu soprattutto il bisogno di curare i propri malanni, procurandosi da solo i rimedi che potessero risultare efficaci.
Una delle stanze del museo Medico " Tommaso Campailla "di Modica
Fu così che, cercando medicamenti che alleviassero in qualche modo dolori e scricchiolii del suo apparato scheletrico, cominciò ad impratichirsi nell’utilizzo del mercurio, sostanza già nota per la sua azione benefica in vari stati patologici. C’era la sifilide tra questi: se la trovò davanti con la sua sagoma spettrale, e decise di sfidarla, stavolta per il bene di tutti.
Malattia infettiva a prevalente trasmissione venerea, la sifilide (o lue) aveva già da tempo seminato il terrore tra varie popolazioni: per la sua gravità, per la mancanza di adeguate terapie e, non ultima, per la maniera assolutamente immorale con la quale veniva contratta. Una infamia da nascondere, agli occhi della società; un vero e proprio castigo di Dio, per chi credeva a certe superstizioni.
Altra stanza del Museo Medico
La tesi secondo cui sarebbero stati i marinai di Cristoforo Colombo a trasportarla in Europa, al ritorno dalle Americhe, non ha mai avuto piena conferma. Di certo, i rapporti sessuali con partner sconosciuti, e con poca osservanza dell’igiene, stavano alla base del contagio.
La prima vera epidemia si era sviluppata in seguito alla occupazione di Napoli, nel 1495, da parte del Re francese Carlo VIII, le cui truppe erano composte per lo più da mercenari senza ritegno; i quali, incapaci di resistere a certi istinti, avevano permesso al treponema pallidum – l’agente eziologico della malattia – di penetrare nel loro organismo, spargendolo poi lungo la strada di risalita in tutta Italia, e da qui in tutta Europa. La definizione iniziale di ‘mal francese’ (o di ‘mal gallico’) era sembrata a tutti ovvia e priva di malizia; tranne ai francesi – e ti pareva – che dal loro punto di vista si sentivano piuttosto vittime del ‘mal napolitaine’.
Carlo VIII RE di Francia entra a Napoli (1945 )
Di ‘metodo francese’, tuttavia, si parlava, riferendosi a quello universalmente più utilizzato nella terapia della sifilide, che si avvaleva delle cosiddette stufe mercuriali. Si trattava di una sorta di capsula all’interno della quale veniva rinchiuso il paziente, seduto su uno sgabello, testa fuori; nel braciere della stufa veniva versato il cinabro (minerale contenente solfuro di mercurio), che per sublimazione faceva esalare vapori del principio attivo, assorbiti dalla pelle in piena sudorazione.
Particolare di una antica stampa rafficurante una " Botte " per la cura della sifilide
Qualche effetto benefico c’era; ma, per bene che andasse, il mercurio così introdotto si limitava a fare regredire i sifilomi, cioè le tipiche lesioni cutanee, mentre del tutto inutile si rivelava nel caso in cui la malattia avesse già superato anche solo il primo dei quattro stadi nei quali poteva manifestarsi, invadendo organi e apparati.
La trovata di Campailla – geniale nella sua apparente semplicità – fece compiere un importante passo avanti in questo tipo di trattamento. Il riflessivo Tommaso pensò a come rendere anche inalabili quei vapori di mercurio, favorendone in tal modo l’assorbimento attraverso l’apparato respiratorio: bastava aggiungere l’incenso nel braciere, così da stemperare e ridurre la tossicità.
Vecchia boccetta di medicamento a base di mercurio
A quel punto, pure la testa del paziente poteva stare chiusa all’interno, il che comportava una modifica nella struttura e nella forma di quelle camere: eliminata l’ampia apertura superiore, si lasciavano solo due piccoli fori alle estremità. Così fatte, somigliavano proprio a delle botti!
Sono ancora là a fare bella mostra di loro, le ‘botti’ del Campailla; a Modica, nella centralissima Via Roma, presso i locali del vecchio Ospedale Santa Maria della Pietà.
L'ex Ospedale Campailla, oggi sede del Museo della Medicina
Li custodisce un Museo della Medicina, dove si può ammirare anche un teatro anatomico, uno studio medico, una esposizione di antichi strumenti operatori. Nella cosiddetta Stanza delle botti, l’atmosfera del passato si carica di suggestione, fino a poter creare anche un certo turbamento. Eccoli, questi camerini in legno, con copertura a volta, una porticina d’accesso; larghi 80 cm, alti 1 metro e 34, appena sufficienti a dare spazio a un paziente, che se ne stava là seduto dai dieci ai venti minuti, a seconda dello stadio della sua malattia.
La stanza delle 'Botti' di Campailla per curare la Sifilide
Tommaso cominciò a sperimentare le sue botti dal 1698, ancora trentenne; forse fu il primo a stupirsi dei risultati vantaggiosi che si ottenevano, e che spesso portavano a vere e proprie guarigioni nella sifilide. Si narra di individui in stato di cachessia, che dopo essersi più volte rinchiusi nella botte ne uscivano rinvigoriti, nel fisico e nel morale; facile, a quel tempo, gridare al miracolo. Il tam tam del passaparola – seppure sussurrato con discrezione – sparse ben presto la voce oltre i confini, della Sicilia e della Penisola, raggiungendo i vari stati dell’Europa.
Stampa di una malata di Sifilide
Così Modica, capoluogo della contea omonima, diventò meta di segreto pellegrinaggio da parte di quei nobili e cavalieri che, oltre alla ripugnante malattia, avevano anche un’onta da cancellare.
Non fu una gloria effimera. Le Botti del Campailla trovarono seguaci e ampi consensi. Dopo che a Modica l’Ospedale Santa Maria della Pietà venne convertito (termine quanto mai attuale!) nel Sifilicomio Campailla (poi divenuto Ospedale Campailla), a Palermo fu istituito un Sanatorio Campailla, a Roma si costruì una Botte di Modica, a Milano si utilizzarono botti di vetro di simile concezione. La stessa Parigi – capitale del ‘metodo francese’ – accettò la novità ‘siciliana’, riservando appositi stabilimenti, e allargando il campo di impiego anche alle malattie reumatiche e neurologiche.
La Contea di Modica nel XVIII Secolo
Il progresso, ovviamente, era destinato a relegare il contributo di Campailla in un angolo della storia. Sarebbe stato poi messo al bando un tale utilizzo del mercurio, a causa del suo effetto cancerogeno, che lui di certo non poteva conoscere. Così come non poteva immaginare che sarebbe arrivata un giorno – ma di anni ne dovettero trascorrere duecentocinquanta – una muffa chiamata penicillina, in grado di stanare i treponemi circolanti nel sangue delle persone affette da sifilide; malattia peraltro non ancora scomparsa.
Una vecchia boccetta di Penicillina
Il buon Tommaso non avrebbe potuto fare di più. Era entrato solitario nel mondo della filosofia, della letteratura, delle scienze e della medicina; aveva raccolto insegnamenti e restituito frutti del suo ingegno creativo. Titoli di studio, nessuno; desiderio di conoscenza e voglia di rendersi utile al prossimo, in quantità esagerata. Tutto questo senza clamori; quasi senza apparire. La sua casa e la sua famiglia (moglie e figli) delimitavano lo spazio della sua quotidianità. Visse così fino alla fine dei suoi giorni, a 72 anni, nel 1740. Modica, da allora, si è ritrovato in mano un patrimonio da difendere. Al pari della prelibata cioccolata.
Nunzio Spina, 63 anni, è nato a Catania. Medico, giornalista collaboratore del quotidiano “La Sicilia”, si è specializzato in ortopedia a Milano. Ha poi esercitato la professione ospedaliera, prima a Ponte San Pietro (BG), poi ad Aosta e infine a Macerata, dove attualmente risiede con la famiglia. Da circa quindici anni si dedica, nel tempo libero, alla pubblicazione di libri e articoli sulla storia dell’ortopedia e sulla storia del basket, coniugando così la passione per la disciplina sportiva praticata negli anni catanesi.
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