26 giugno 2021

‘A Muscalurara

 Muscalurara

Chi era ‘a Muscalurara? Parliamo di 
antichi mestieri siciliani, quelle professioni di un tempo, che oggi non ci sono più. Per capire chi fosse, è necessario partire dalla definizione di un termine: “muscalora“, cioè ventagli di palma nana utilizzati per ravvivare il fuoco. La muscalurara vendeva anche cappellacci.

La Muscalurara indossava solitamente una veste ampia e girava portando nelle mani numerosi muscalora. Oltre che per ravvivare le fiamme, si utilizzavano anche per rinfrescarsi in estate. La muscalurara portava anche sul capo molti cappelli di paglia, infilati l’uni sull’altro, poiché aveva già le mani impegnate. I cappelli erano destinati agli uomini, che li avrebbero indossati per lavorare nei campi.

A raccontarci chi fosse arriva, puntualmente, Giuseppe Pitrè, che tanto ha tramandato in fatto di storie e personaggi di Sicilia. Ecco cosa ha scritto della “Za Maddalena”, un personaggio molto caratteristico:

“La Za Maddalena, unica donna (non Palermitana) che a Palermo va a piedi nudi, ha il marito nei guai (in carcere) e, un po’ per lui e un po’ per la famiglia, vende coffi e muscalora. Le sue sporte ed i suoi ventagli, sono lavorati nelle Grandi Prigioni, con foglie di palma, così pure i cappellacci, che essa, a dozzina, infilati l’uno sull’altro porta sul capo, non 
potendolo tra le mani”.


25 giugno 2021

Nettascarpe, oggetti antichi che “abitano” ancora oggi nelle città siciliane

 

                                      nettascarpe

A cosa servivano i nettascarpe?

. Con un nome così non è difficile intuirlo

. Si usavano per pulire le calzature 
  prima di entrare negli edifici.

. Ancora oggi si incontrano camminando per le      strade delle città, ma non tutti ne conoscono 
 la storia.

. Oggi ci sembrano inutili, ma in passato non lo      erano affatto.

Quante volte, camminando per strada, ci siamo imbattuti in strani oggetti di metallo, piantati nei marciapiedi o fissati ai muri? Magari abbiamo anche rischiato di caderci sopra. Sono i nettascarpe e un tempo venivano utilizzati per strofinarci sopra le suole e pulirle dal fango. Vengono anche chiamati “grattascarponi“. 
In Sicilia se ne trovano ancora molti anche se, a dire la verità, diventano sempre più rari. Di solito erano in ghisa. Non è facile ricostruirne la storia. A quanto pare, a Roma esistevano già nella prima metà del 1700, ma divennero popolari in tutta Europa nel secolo successivo. La forma, che variava, era legata al prestigio dell’edificio cui facevano riferimento. Se. infatti, per le abitazioni più umili erano semplici rettangoli o barre, per i palazzi più nobili erano anche decorati o avevano la forma di decori.

Non è difficile intuire che, prima che ci fosse l’asfalto, la loro presenza era tutt’altro che superflua. Non era inusuale percorrere 
strade polverose e terrose. 
Soprattutto in caso di pioggia, c’era realmente bisogno di pulire le suole. In città, tra l’altro, si poteva anche calpestare lo sterco dei cavalli che trainavano carretti e carrozze. Nel 1925 un regio decreto ne raccomandò addirittura la presenza in tutti gli alberghi, ma con la seconda guerra mondiale iniziò il declino di questi oggetti. Vennero, infatti, inseriti tra i materiali ferrosi da riciclare per fabbricare armi e munizioni. Negli anni Sessanta, poi, cambiarono decisamente i canoni per la costruzione di nuovi edifici e quartieri. In alcuni casi, i nettascarpe sopravvissuti vennero anche staccati o inglobati nei marciapiedi.

23 giugno 2021

In origine era la "casa" di un conte: a Pozzallo c'è una torre che sembra adagiata sulla sabbia

 

Torre Cabrera a Pozzallo (Ragusa)

Torre Cabrera, voluta dal Conte di Modica da cui prende il nome, in origine non era stata concepita esclusivamente come torre di difesa bensì come "Palacium"

Silenziose si stagliano sulla linea di orizzonte che unisce mare e cielo, familiari all’occhio eppure poco conosciute.

Come scrigni possenti, custodiscono il tesoro di storie secolari. Occhi verso l’infinito moto marino, hanno vegliato e protetto l’isola e i 
suoi abitanti.

Sono le torri costiere di Sicilia, che da mezzo millennio ne costellano il perimetro e raccontano storie di incontri e scontri.

Tra queste vi è la suggestiva Torre Cabrera a Pozzallo, in provincia di Ragusa.

Questa torre si erge, imponente e maestosa, sulla scogliera del litorale del borgo marino e prende il nome da colui che decise di realizzare questa fortificazione nella prima metà del Quattrocento, ovvero
 il conte di Modica Giovanni Bernardo Cabrera.

Quest’ultimo era esponente di una delle più illustri famiglie catalane, i visconti Cabrera e Bas e conti di Osona, che sostenne e finanziò i sovrani spagnoli nella riconquista della Sicilia e ne ebbe in cambio la Contea di Modica confiscata ai ribelli Chiaramonte.

Realizzata in stile tardo medievale del periodo Aragonese in pietra iblea, poderosa e massiccia a guardia della costa, sembra quasi adagiata sulla sabbia. Splendidamente circondata dalle case dei pescatori e dai ristorantini del vecchio borgo, Torre Cabrera è il vero simbolo di Pozzallo.

L'imponente edificio a pianta quadrata misura 20 metri di lato ed ha un'altezza di 28 metri dal piano stradale, è costituita di tre piani più la terrazza. Conserva all'esterno il cinquecentesco bastione scarpato, che si protende sul mare con l'ampia terrazza, munita delle troniere che servivano per la manovra dei pezzi d'artiglieria prescritti dalle esigenze del sistema difensivo della Sicilia nel Mediterraneo, mare di scorrerie e di conflitti.

A seguito dei recenti restauri si è dimostrato, però, che questa costruzione in origine non era stata concepita esclusivamente come torre di difesa bensì come Palacium, che coniugava quindi la funzione di residenza signorile con quella di punto di controllo delle granaglie e delle merci, le quali provenienti dal’interno venivano imbarcate dal Caricatore.

Infatti, in base a diversi documenti rinvenuti, gli storici affermano che l’intenzione originaria del conte era quella di avere una sua personale residenza in riva al mare.

La scelta di trasformarla in fortezza per la difesa della città arrivò solo in momenti successivi, probabilmente rendendosi conto che la posizione non era ideale visti i continui assedi da parte dei pirati, che non avrebbero certo fatto trascorrere troppo tempo prima di saccheggiarla.

La trasformazione in fortezza avvenne nel 1606 ad opera dell’ingegnere Giulio Lasso, 
già conosciuto in Sicilia per aver realizzato diversi altri importanti edifici, da Catania a Palermo.

Già alla fine del ‘500, al palacium originario, si aggiunge il poderoso bastione a mare, si tamponano le grandi aperture a levante, a mezzogiorno e a ponente; si adatta l'articolazione degli spazi interni a favore di una sistemazione utilitaristica di carattere militare.

Si costruiscono i due grandi contrafforti sulla facciata sud e si modifica il sistema d'accesso, interrando nella cieca base bastionata l'originaria scala di accesso.

L'impianto planimetrico interno, con i magazzini e le cisterne nel piano terra e con i decorati e spaziosi saloni dei piani elevati, risponde sia alla funzione rappresentativa del palazzo-residenza, sia a quella commerciale legata alla fiorente attività del "Caricatore di Pozzallo", porta a mare dell'antica Contea di Modica (1296- 1816).

Da lì, infatti, partiva il grano destinato all'esportazione lungo le rotte mercantili del Mediterraneo. L’esterno della torre presenta una grande uniformità costruttiva e l’impianto planimetrico interno è semplice e sobrio, diviso in due sezioni rettangolari.

Una serie di volte ricoprono gli ambienti della torre: due volte a botte nella prima elevazione e tre volte a crociera per ogni sezione degli ultimi due piani. Nelle volte a crociera di qualcuna delle sale adibite a residenza, spiccano gli stemmi raffiguranti la capra, simbolo della nobile famiglia catalana dei Cabrera.

Qui altri due ambienti, destinati probabilmente ad uso privato, sono coperti da altre tre crociere ed illuminati da due trifore trilobate aperte sul mare. Una scaletta a chiocciola ricavata all'interno del muro nello spigolo sud ovest, conduce al terzo piano, occupato dal terrazzo da cui si gode una vista panoramica straordinaria.

Durante i lavori di restauro degli ultimi anni sono stati ritrovati alcuni elementi decorativi originari della Torre – Palazzo: si tratta dei cosiddetti “azulejos heraldicos”, caratteristiche mattonelle maiolicate, decorate in blu e con stemmi di famiglie nobiliari, quasi sicuramente 
realizzate in Spagna.

Nella torre prestavano servizio soldati e artiglieri e sulle sue terrazze erano piazzati cannoni di diverso calibro, mentre dei cavalieri sorvegliavano la costa.

Si pensa che vi venissero anche puniti i criminali o i prigionieri saraceni catturati e giustiziati in una camera particolare, ancor oggi visibile, situata proprio sugli scogli, dove i detenuti venivano incatenati e poi uccisi per annegamento dalle acque innalzatesi 
con l'alta marea.

Nel 1693 Torre Cabrera subì gravi danni in seguito al rovinoso terremoto che colpì tutta la Sicilia orientale e fu necessario ricostruire in fretta il Caricatore. Rispetto al progetto originale furono apportate alcune modifiche ma fu mantenuto il suo stile sobrio ed austero.

La Torre Cabrera è oggi insignita dell’importante riconoscimento di Monumento Nazionale. La sua effige è riportata sullo stemma della città per ricordare che attorno alla fortezza nacque e si sviluppò un piccolo borgo di pescatori, artigiani e soldati che poi ingrandendosi diventò 
l’attuale Pozzallo.

19 giugno 2021

" Il Carradore. "


L’aratro, è considerato dagli archeologi una sorta di evoluzione del piccone e della vanga che, utilizzando la forza animale, permette la lavorazione di una più ampia superficie di terreno, era conosciuto fin dai tempi preistorici. Gli aratri più antichi erano completamente in legno, lavorato a mano (ovviamente) dal carradore che con pialle, asce, seghe e scalpelli modellava il legname e costruiva l’aratro, oppure riparava i raggi delle grandi ruote del ‘traìno’ (carro per i lavori) o dello ‘ sciarabà’ (calesse da passeggio ). Il lavoro paziente del maestro carradore era poi accompagnato da“lu trainieri” che munito di cavallo,o mulo, e traino trasportava su richiesta qualsiasi tipo di materiale e “lu Ferracavalli” o maniscalco che con molta cautela faceva e applicava gli zoccoli ai cavalli.

18 giugno 2021

" Lu Conzalimbi "

 

 giara

Il conciabrocche era colui che riparava lu limbu, ovvero un grande catino di terracotta, utilizzato prevalentemente come lavatoio; lu cconzalimbi non riparava soltanto i limbi, ma qualunque oggetto di terracotta; la parsimonia della cultura contadina, che non era avarizia bensì considerazione e rispetto dei beni materiali, tendeva a conservare ed a riparare gli oggetti danneggiati, per cui allorché un piatto o una giara si rompevano o mostravano segni di prossima frattura, venivano riposti in attesa che passasse lu cconzalimbi.

17 giugno 2021

Il Maniscalco

 

Maniscalco al lavoro

Il maniscalco è l'artigiano che esercita l'arte della mascalcia, ossia del pareggio e 
ferratura del cavallo e degli altri equini domestici (asino e mulo). L'etimologia della 
parola è strettamente
legata a quella di maresciallo (come dimostra anche la vecchia variante sininimica mariscalco),
dalla radice mare (in inglese, giumenta) e dalla radice shall (dovere, responsabilità); interpretazioni più accreditate indicano l'origine della parola inglese marshal dall'antico germanico marah (cavallo) e schalh (servo), indicando quindi colui che si occupa/che è responsabile/che si prende cura dei cavalli, parola che poi si è diffusa in europa. Storicamente, l'arte del maniscalco si sovrapponeva in parte a quella del fabbro; i ferri venivano infatti forgiati al momento, e su misura, secondo le necessità dei cavalli. Attualmente l'ampia disponibilità commerciale di ferri di cavallo già pronti rende inutile il loro confezionamento, ma è comunque richiesta una certa competenza nella lavorazione del ferro per i necessari adattamenti che vengono attuati a freddo o a caldo con i tradizionali attrezzi del fabbro (fucina, incudine, mazza). L'atto dell'adattamento e dell'applicazione del ferro non esaurisce il compito del maniscalco; infatti, un'importante fase della ferratura è il pareggio, che consiste nell'asportazione dell'eccessiva crescita delle varie parti dello zoccolo rivolte verso il suolo 
(muraglia, fettone, suola, barre). Recentemente, a seguito del diffondersi anche in Italia 
del barefoot movement, l'arte della mascalcia ha trovato un nuovo impulso; nel cavallo scalzo, infatti, il pareggio ha una particolare importanza e richiede l'apprendimento di nuove tecniche. Inoltre, l'uso del cavallo scalzo richiede che il maniscalco sia anche preparato a un'attività professionale del tutto nuova, l'adattamento delle scarpette usate nel periodo di transizione (il periodo che intercorre fra la sferratura e la completa riabilitazione dello zoccolo, della durata di alcuni mesi), 
durante il quale gli zoccoli 
(in genere, solo gli anteriori) richiedono una certa protezione per evitare al cavallo 
qualsiasi disagio 
sui terreni difficili. Il maniscalco collabora strettamente, nel suo lavoro, con il proprietario 
(che gli fornisce tutte le informazioni sull'uso abituale del cavallo, su eventuali esigenze particolari, su eventuali problemi dell'andatura) e con il veterinario (con il quale concorda gli accorgimenti opportuni in caso di patologie della zampa o delle articolazioni degli arti).



14 giugno 2021

Fu il "Cristoforo Colombo palermitano" del 1800: l'impresa (dimenticata) del veliero Elisa

 Il brigantino Elisa

Ci sono imprese cadute nell'oblio nonostante la loro grandezza.

Una di quelle dimenticate è avvenuta negli anni 1838-39 dal brigantino Elisa, ovvero un veliero costruito interamente nei cantieri siciliani, che fece un'impresa in quel tempo considerata difficile e molto prestigiosa.

Infatti, l'imbarcazione raggiunse l'Isola di Sumatra passando dall'Oceano Indiano dopo aver attraversato l'Atlantico. 
Al comando dell'imbarcazione vi era 
Vincenzo Di Bartolo, nativo di Ustica e diplomato al Collegio Nautico di Palermo, altra grande eccellenza siciliana.

Di Bartolo, nonostante la giovane età, aveva molta esperienza in fatto di navigazione, poiché aveva fatto numerosi viaggi in Europa e in America. Quella, volta però lo aspettava un viaggio diverso e molto impegnativo. Lo scopo del viaggio era quello di consegnare alcune merci a Boston, per poi recarsi nell'Isola di Sumatra per fare un carico di pepe.

L'equipaggio della nave era formato interamente da marinai palermitani e di Termini Imerese.
L'Elisa salpò da Palermo in pieno autunno, precisamente il 28 ottobre del 1838.

Il 10 dicembre dello stesso anno attraversava lo Stretto di Gibilterra. In quei giorni, Di Bartolo, durante le operazioni navali di routine, si procurò una frattura alla scapola sinistra e fu costretto a cedere il comando della 
nave a Filippo Montechiaro, anconetano di nascita ma formato, anche lui, al Collegio Nautico di Palermo.

Il 27 gennaio 1839, dopo numerose peripezie a causa del freddo e di alcune tempeste incontrate durante il viaggio, il brigantino giungeva, finalmente, a Boston, prima tappa del suo viaggio.

Qui, vennero eseguite alcune riparazioni e si acquistarono diverse carte di navigazione, e delle armi da fuoco, poiché il veliero avrebbe attraversato delle acque insidiose in cui scorrazzavano i pirati malesi per poi sbarcare in territori in cui le popolazioni indigene non erano sempre pacifiche.

Il primo marzo del 1839 l'Elisa ripartì da Boston e dopo circa due settimane passò il Tropico del Capricorno e si diresse verso il Capo di Buona Speranza.

All'inizio di luglio l'equipaggio di Di Bartolo giunse nell'isolotto di Palau Raja. Poiché il pepe non era disponibile raggiunsero l'isola di Rigaih.

Qui, finalmente, Di Bartolo potè rifornire la nave di viveri e si mise in contatto con il capo tribù che si presentò "scalzo e con un berrettone di vimini; salì in vista a bordo, osservò la bandiera reale, chiese in regalo un cannone e un altro ne acquistò dopo aver visto tirare due colpi", come riportato dal breve opuscolo scritto sull'impresa di Di Bartolo da Ignazio Filiberto nel dicembre del 1839 su commissione del Duca di Caccamo. Il 26 luglio 1839, dopo aver caricato la nave di spezie, l'equipaggio dell'Elisa cominciò il viaggio di ritorno.

L'11 settembre giunse nell'Isola di Sant'Elena dove sostò un paio di giorni per rifornirsi di provviste. In questo tempo Di Bartolo approfittò per visitare i luoghi in cui visse l'esilio Napoleone Bonaparte, trovando la tomba di quest'ultimo in pessime condizioni.

Così, il 5 dicembre 1839 il brigantino riattraversava lo Stretto di Gibilterra e la sera del 15 dicembre giungeva a Palermo. Per la prima volta una nave palermitana aveva solcato l'Oceano Indiano, aprendo la possibilità per nuovi commerci. Di Bartolo fu anche molto attento a non far mancare le provviste ai suoi uomini per evitare che si ammalassero di scorbuto dovuto alla carenza di vitamine.

Come scriveva Rosario La Duca, "l'impresa del brigantino palermitano Elisa e del suo comandante Vincenzo Di Bartolo si inserisce nelle migliori tradizioni dell'antica marineria siciliana e merita, senza dubbio, di essere ricordata ancora una volta".

13 giugno 2021

 

Sant'Antòniu miraculùsu, 
un mi lassàri sulu e cunfùsu. 
Riccìllu tu a la Matri di Diu, di stàrimi vicìnu, sant'Antòniu miu. 
Sant'Antonìu fammi la ràzia, teni luntàna ogni disgràzia. 
Tu chi strìnci 'ncòddu lu fìgghiu di Diu, abbràzzami forti, sant'Antòniu miu. 
Sant'Antonìu purìssimu gìghhiu pìgghiami pì manu, rùnami cunsìgghiu. 
Lu piccatùri razi a tia si pintìu, rammi curàggiu, sant'Antòniu miu. 
Sant'Antòniu rùnami salùti, fammi sùsiri 
'nta li carùti. 
Cù li tò prièri lu mortu alliviscìu, fammi tràsiri 'mParaddìsu, sant'Antòniu miu.

12 giugno 2021

È nella pace di una grotta di Milazzo: il Santuario di Sant’Antonio da Padova detto "Antonino"

 

Siamo a Capo Milazzo, che con la sua conformazione era un approdo naturale in caso 
di naufragio, un luogo, dove trovare riparo e salvezza, e dove forse curare le tempeste 
interiori


Il Santuario di Sant'Antonio da Padova a Capo Milazzo

Un panorama mozzafiato, la rupe s'immerge in un mare dai colori cangianti ricco di Poseidonia e Gorgoni rosse, una volta c'erano anche i cavallucci marini. Tra gli anfratti nidificano le rondini stanziali, che non abbandonano mai questo posto.

È un'area marina protetta dove solo i pescatori di Milazzo possono andare e dove le imbarcazioni non possono avvicinarsi, per non turbare questo delicato ecosistema marino. Un paesaggio unico dove la roccia calcarea (coralli sedimentati) cresce di un millimetro l'anno. 
Siamo a Capo Milazzo, dove all'interno di una delle grotte si trova il 
Santuario Rupestre di Sant'Antonio da Padova. 
È in questo posto, bellissimo da visitare, che si lega la storia di Fernando Martins de Bulhões, noto in Portogallo come Antonio da Lisbona, e qui da noi come Antonio da Padova.

Sant'Antonio nacque a Lisbona nell'agosto del 1195 da una famiglia benestante. Istruito alla scuola Vescovile della Curia, a 15 anni entrò in un convento Agostiniano. Desideroso di un dialogo interiore con Dio, scelse il silenzio e la mortificazione della carne. I confratelli si accorsero di quanto speciale fosse questo ragazzo, e si dispiacquero quando scelse di entrare nell'Ordine Francescano. Fernando sentiva che doveva fare di più, aveva saputo della sorte di cinque frati decapitati dai Mussulmani, durante una missione evangelica. Questa terribile storia lo convinse a entrare nel Convento dei Frati Minori per condividere la scelta eroica del martirio.

A questo mutamento di vita religiosa, fece accompagnare anche il cambio del nome: 
da Fernando ad Antonio, un monaco orientale ricordato nel Convento di Coimbra. 
Entrato nell'ordine, ottenne il permesso di imbarcarsi per il Marocco, nel 1220, in compagnia di un confratello, Filippo di Castiglia. 
Appena giunto in Africa, però, fu colpito da una malattia tropicale, che lo mise a letto per mesi. 
Con il perdurare del morbo, i due frati non poterono che rimbarcarsi per far ritorno a casa in Portogallo.

Ma durante il tragitto, s'imbatterono in una tempesta, scaraventati con il relitto tra i flutti, spiaggiarono su delle coste, che con loro grande sorpresa, erano quelle della Sicilia. Il loro approdo, si dice, fu tra Tusa e Caronia, raccolti e rifocillati dai pescatori, proseguirono il loro cammino fino a Capo Milazzo. Qui scelsero come dimora una delle grotte naturali, quella che poi diventerà il Santuario Rupestre. Le grotte erano i magazzini e luoghi di riposo dei tonnaroti che lavoravano in una tonnara sottostante. Antonino, come fu chiamato perché piccolo d'altezza, si fermò per qualche tempo, guarito dalla malattia, aiutò i pescatori nelle faccende giornaliere, cucinando per i Capiciani, “gente forte e fiera”, e dicendo messa per loro nella grotta.

Da Capo Milazzo poi proseguì il cammino verso un Convento Francescano vicino a Messina, qui verrà a conoscenza del grande Capitolo che si sarebbe tenuto ad Assisi alla presenza di San Francesco. Probabilmente ripensò a tutte quelle scelte non andate a buon fine, pensò che questa riunione fosse un segno di Dio, un'indicazione su cosa fare, chiese quindi di entrare nella delegazione del Convento, e insieme con loro risalì la penisola a piedi fino alla cittadina umbra. Si dice che qui nella moltitudine di frati, più di 3000, non ebbe modo di parlare con il Santo. La sua strada era ancora un'altra, vicino a Padova, dove andrà e morirà il 13 giugno del 1231 a 36 anni.

Il Santuario di Capo Milazzo deve la sua costruzione, nel 1500, a una facoltosa famiglia di Messina, che edificò nella roccia una Chiesa barocca. Ma questo luogo ha una storia antica, sono state recuperate testimonianze di epoche precedenti, ceramiche raffinate che fanno pensare a un luogo sacro e votivo. Inoltre la scelta di Antonio non fu probabilmente casuale, si racconta di comunità ascetiche che abitarono quelle grotte naturali a picco sul mare dove passava la rotta per le isole Eolie. Con la sua conformazione Capo Milazzo era un approdo naturale in caso di naufragio, un luogo, dove trovare riparo e salvezza, e dove forse curare le tempeste interiori.

Il 27 marzo di quest'anno, una reliquia tratta dal corpo del Santo nel 1891, è arrivata a Capo Milazzo, è stata fatta "naufragare" e spiaggiare, come 800 anni prima. La scelta del giorno è per ricordare la solitaria preghiera del Papa del 2020 in una San Pietro deserta e spettrale, e per pregare per tutte le vittime della Pandemia e del Mediterraneo. Il 13 giugno (giorno della morte) la Chiesa celebra il Santo Portoghese. Capo Milazzo lo ricorderà, compatibilmente con le limitazioni previste, con l'ascesa a piedi al Santuario, dove sarà ricordato 
il "naufrago Santo".

A Messina (città dove Antonio si fermerà e da cui ripartirà per Assisi) anche quest'anno non potrà svolgersi la grandiosa festa per il Santo. Non ci sarà la Processione, con il magnifico carro alto sette metri con il Santo in cima, poggiato su un globo e rivestito di preziosi ex voto. 
Non si vedrà il tributo di 
grandi masse di devoti e pellegrini, alcuni dei quali vestiti del saio francescano a testimonianza della grazia ricevuta. Bisognerà ancora attendere per ricevere i “pani benedetti” e per vedere i bambini, di cui il Santo è protettore, vestiti da fraticelli. Ma qualcosa sarà fatto, le reliquie del Santo questa volta prenderanno il volo, un aereo sorvolerà lo stretto per offrire la benedizione alle città di Messina e Reggio.

La Sicilia è una terra di approdo, di destino e di passaggio, spesso le tempeste hanno portato personaggi che hanno lasciato un contributo profondo nella storia. 
L'Isola accogliendo tutti, ne ha plasmato e indirizzato le loro vite.

11 giugno 2021

Il mese del patrono di Pozzallo "San Giovanni Battista



di
Antonio Carmelo Monaca


Giugno, il mese del Patrono di Pozzallo. Qualcuno si sarà chiesto quale è il nome di quella nave visibile sull'immaginetta classica di 
San Giovanni Battista. Quella nave è la più bella nave da crociera. Era l'Andrea Doria. 
Ma perché proprio l'Andrea Doria? 
Era passato appena un mese dalla Festa di 
San Giovanni solennemente festeggiato come ogni anno quando il 26 luglio del 1956 
l'Andrea Doria fu speronato e affondato 
dalla Stockholm. Il parroco Gugliotta fu molto impressionato da quella tragedia che sfiorò Pozzallo. Il marinaio Raffaele Scala, 
"Capo lancia dell'imbarcazione n. 5 effettuò un laborioso viaggio, con carico di naufraghi, diretto sul piroscafo "Cape Ann", quindi ritornato nei pressi del "Doria" restò fino all'ultimo a disposizione del Comando.
" (Commissione Speciale d'Inchiesta Formale sul sinistro della T/N Andrea Doria). 
Dall'anno successivo l'immaginetta riporta la Doria alle spalle di San Giovanni Battista, Patrono di Pozzallo, degli Emigrati che con le navi andavano in America e dei Marinai che quelle navi conducevano e conducono tutt'ora. La Doria aveva al comando un genovese, 
Pietro Calamai, diplomato dalla mia scuola, il Nautico San Giorgio e partì per il suo ultimo viaggio da Genova che ha per Patrono 
San Giovanni Battista...

Biagia - Silvana ❤ La Storia di Pozzallo_3 Silvana La Pira_3

                         - Silvana La Pira -

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