Le saline di Augusta risalgono al XVI secolo. Erano vaste aree in cui veniva estratto un tipo di sale ritenuto di ottima qualità ed indicato per la conservazione di pesce e carne
Le antiche saline di Augusta
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Il lavoro delle saline era tipicamente stagionale. Iniziava subito dopo la festa di San Giuseppe (19 marzo) e si protraeva finché durava la bella stagione, in genere fino ad agosto, per evitare i rischi dei primi temporali. Una giornata tipica dei salinari iniziava la mattina all'alba e proseguiva fino alle 11, evitando cosi il torrido caldo di mezzogiorno.
Si riprendeva a lavorare nel primo pomeriggio fino intorno alla 17. Il ciclo del processo salino per la raccolta del sale iniziava sfruttando l’alta marea dal vicino mare e si faceva affluire l’acqua attraverso delle apposite ‘bocche’ fino a giungere nei ‘pantani’ da dove, con l’apporto dei mulini a vento, passava nelle apposite "caselle".
Da queste, dopo aver raggiunto la temperatura di 30° e trasformatasi in ‘acqua fatta’, veniva trasferita nelle ‘salande’ dove evaporando l’acqua il sale affiorava dal fondo in sottili lastre. Quindi, dopo averlo raccolto in piccoli “munzeddi”, veniva trasportato a spalla dentro dei “cufini” per accumularlo in montagne squadrate rassomiglianti a delle bianche piramidi.
Una volta formate, queste montagne di sale erano coperte con le tipiche tegole locali per preservare il raccolto da eventuali piogge fuori stagione, in attesa del suo smaltimento.
Solitamente nelle saline comunali qualcuna di queste bianche montagne era messa a disposizione della popolazione, che così poteva prelevare gratuitamente delle quantità di sale da utilizzare per le proprie necessità. La fase di raccolta del sale costituiva un momento delicato e faticoso.
Delicato, perché doveva essere effettuata evitando di alterarne la qualità portando con sé anche la parte fangosa presente al di sotto della crosta. Un momento faticoso perché tutto il lavoro, dalla fase della rottura della crosta superficiale al raggruppamento per l’essiccazione al sole, avveniva sotto i raggi diretti del sole, riflessi oltretutto dal bianco del sale.
A questo si aggiungeva una condizione di asperità dovuta all’inevitabile contatto diretto tra la pelle nuda ed il sale stesso. Non a caso vi è il detto siciliano “iancu jè u Sali, jè niuru cu lu travagghia” (bianco è il sale, è nero chi lo lavora).
Sul finire degli anni Cinquanta del Novecento, col progredire dell’industria del freddo, diminuì l’utilizzo del sale come prodotto per la conservazione delle carni, con le difficoltà di reperire manodopera disposta ad un così duro e faticoso lavoro e con dover produrre un prodotto alimentare in un ambiente non più puro a causa dell’elevato inquinamento del territorio, le saline di Augusta intrapresero lentamente il cammino del tracollo conclusosi negli anni Settanta, quando ufficialmente ne fu decretata la totale chiusura.
Dopo di allora, la maggior parte di quelle aree umide delle ex saline comunali sono state sfruttate per costruirvi numerosi e vari edifici privati, lasciandone intatte solo delle discrete porzioni.
Proprio queste aree risparmiate dall’urbanizzazione del territorio nel tempo sono diventate l’habitat naturale per la sosta, la riproduzione e la nidificazione di moltissime specie di uccelli migratori, diventati la principale attrattiva di fotografi naturalisti.